Le urla di dolore

di Luca Soldi, Rete Radié Resch Quarrata

Umanità e sicurezza possono convivere nella nostra società o ciò diventa la scusa di una comunità che non riesce a ricostruirsi dalle macerie del nostro tempo?

Ci siamo svegliati da un lungo sonno ed ecco di fronte a noi i fantasmi del passato: le povertà, le indifferenze, gli egoismi. Tutto concentrato adesso, quando la rabbia e le grida appaiono l’unico modo per far sentire la propria voce. Le urla di un dolore che non si riesce ad ascoltare per l’essere tutti distratti sul proprio io.

Ci siamo resi conto che, messa da parte la memoria, non hanno alcun effetto quei vaccini che pensavamo di aver assimilato. Le nostre case, le nostre famiglie trasformate in fortini in realtà hanno fragili mura. Pure associazioni e partiti che si presentavano a tutori del bene, ora si trovano prigionieri di quelle barriere costruite attorno allo scopo di non essere contaminate dall’esterno. Sembra che qualche soluzione sia arrivata da giovani grandi leader che hanno usato la loro presunzione ammaliando le persone per proporre il niente.

E distruzioni sono state. Rottamazioni e rivoluzioni insieme hanno ridotto in macerie quel che di buono poteva esserci. Le grandi paure trovano presa in un Paese al quale da troppo tempo si racconta di una impossibile felicità.

Facile, troppo facile per i nuovi padroni andare a raccontare quello che la miopia impedisce di vedere. Facile per loro indirizzare le colpe verso chi non avrebbe mai avuto la possibilità di rispondere. Facile accusare i nuovi ultimi di prendere posto e risorse ai vecchi ultimi. Facile appunto dare la colpa ai migranti di distogliere le poche risorse rimaste a quanti sono stati schiacciati dalle crisi. Facilissimo addossare loro le paure antiche dell’”uomo nero”. Facile costruire una campagna mediatica terroristica mentre si tagliano diritti e si sottovalutano i doveri.

Tutto quello che si è voluto fare smonta la scuola come istituzione democratica. Il passo falso di accettare quelle paure ha fatto il resto. Ecco l’accusa alle ONG, il riconoscimento della Libia come custode dei confini della porta d’Europa piuttosto che del suo essere Stato-canaglia. E poi la vigliaccheria di non mettersi in gioco nel confronto possibile della cittadinanza a chi nasce in Italia. Arriviamo così ai nostri giorni, con il mito della sicurezza che diventa cavallo di Troia per farci sciogliere gli ultimi dubbi.

Con il ricatto davanti agli occhi. Con l’incapacità di riconoscere il valore dell’ amore “sconsiderato” per il senso di umanità che piace più raccontare a parole che con i fatti.
Avvicinarsi a questo amore non diventa sconfitta come in più di uno cerca di raccontare. Farsi “contaminare” piuttosto che stare lontano può diventare occasione di vera ricostruzione e ripartenza. Vuol dire togliere il peso dalla coscienza indurita dal tempo.

Vuol dire farsi parte della risposta, costruire ponti, gettare semi. Grazie dunque a don Luigi Ciotti, al Gruppo Abele, a don Massimo Biancalani, grazie a don Mattia Ferrari, grazie Mediterranea, grazie Riace, grazie Domenico Lucano, grazie ad Aboubakar Soumaoro, grazie OpenArms, grazie SeaEye, grazie a tutte le altre associazioni impegnate a rendere “sconsiderato” il sentimento di umanità.

Da Fazio, domenica sera 5 maggio, don Mattia Ferrari,il “prete” a bordo della Mare Jonio, ci ha chiesto cosa risponderemo ai nostri figli e nipoti quando domanderanno: “Dove eravate quando succedeva tutto ciò?”. Grazie anche a tutte le donne e a tutti gli uomini di buona volontà.