A Catania il mestiere di pescatore è “misteri ca mori”

testo e foto Mario Libertini

“Giovane! Sì sì, proprio tu! Tu ca mi facevi i foto no mentri ca travagghiavu, i fotografasti i me manu? U viristi comu su? U sali si manciau tutte”. Sabato, porticciolo di Ognina. Sono passate da poco le nove del mattino e i pescatori tornati dalla notte cominciano a vendere masculini. “Masculina da magghia” li chiamano, per la caratteristica di imprigionarsi con la testa nelle maglie della rete che ogni mattina devono essere ricucite.

Il mercatino si riempie di urla. Si confondono sfumature di colori e di volti, nell’aria il buon odore del pesce appena pescato. Su di un piccolo peschereccio un signore mi si rivolge con amicizia: “Aiu tri figghi e non mi ni puttai mancu unu a travagghiari a mari, chistu è misteri ca mori”. Mestiere che muore. La Sicilia, terra di mare per eccellenza, risente del forte danno causato dalle multinazionali del pesce al mercato locale. Si comprano al supermercato i prodotti surgelati delle grandi marche. Pesce proveniente dai pescherecci del mare del Nord o del Pacifico o dell’Atlantico.

Alla pescheria il sabato mattina c’è aria di rassegnazione. “Ca i cristiani non venunu, di simana non c’è nuddu” mi dice un anziano venditore di telline. “Stamu campannu che pensionati, iddi hannu occhio e si venunu ad accattari u pisci friscu, l’autri ormai fannu a spisa nei centri commerciali, accattunu u pisci congelato”. Pensionati, qualche turista e tante bancarelle. “Oggi fici reci euro, manco i soddi ra benzina mi nesciunu” aggiunge un altro commerciante, “finiu stu misteri”.

Come mai i giovani conoscono sempre meno i mestieri tradizionali, la loro storia e il loro valore sociale? Anche se si avvicinano a questi mestieri lo fanno tra mille difficoltà, spesso nella consapevolezza dello scarso guadagno rispetto alla tanta fatica richiesta. Le istituzioni sono più inclini a proteggere i padroni dei centri commerciali piuttosto che le possibilità che la nostra terra e i nostri mestieri tradizionali potrebbero rappresentare.

I pescatori escono dal porto a tarda notte, per poi tornare quando sorge il sole, si svegliano allo stesso orario in cui molti ragazzi vanno a dormire dopo una serata in discoteca. Hanno le mani corrose dal sale: “Me mugghieri mi rici sempri di mittirimi na sti manu, quannu vaiu in pensione ma metto, ancora ai travagghiari”. Guardavo quel signore mentre con maestria cuciva i buchi della rete e pensavo che non ne sarei stato capace. “T’hai cuntato i mia, non mi rici nenti ri tia? Sturii? Iu haiu ‘nfigghio laureato cu 110 e lode in Ingegneria, ora è a Milano ca fa u postino, avi sette anni ca è docu e ancora aspetta di pigghiari u posto”.

La realtà siciliana condensata nelle parole di un pescatore. Una vita passata su un peschereccio per mantenere gli studi universitari a un figlio costretto a emigrare per trovare un lavoro. Nell’Ottocento era ‘Ntoni, il primogenito della famiglia Malavoglia, a lasciare il padre e il nonno e la sua terra per partire. Oggi è il figlio del pescatore di Ognina, il maggiore di tre figli, che parte e si lascia alle spalle la sua terra in cerca di fortuna. Così la Sicilia – ieri come oggi – continua a svuotarsi dei suoi figli, delle sue menti, di braccia, di sogni. Il pescatore continua a cucire la rete mentre parliamo, “Avi da quannu aiu a to età ca fazzu stu misteri, ora aiu 59 anni, fatti u cuntu”.