Sara e le altre

di Michela Lovato

Aspettando che qualcuno passi e si accorga di loro

Sara è seduta sul muretto di fronte alla sua vecchia casa. Guarda il cellulare, scrive ad amiche varie, posta foto su facebook. Non alza gli occhi dal telefonino. Si avvicinano Maria e Rosy, sue amiche e compagne delle scuole medie. Sono silenziose e hanno un’espressione neutra, a momenti triste, le carezzano la spalla e iniziano timidamente a commentarle le foto, inframmezzando la discussione con lunghi momenti di silenzio.

Sara continua a non staccare gli occhi dallo schermo, è impassibile. Maria e Rosy si guardano. Cosa si dice di fronte alla morte, alla violenza? Come si consola un’amica che ha subito un’ingiustizia così grande? Quali sono le parole non banali, non stupide, non forzate che possono starci in questi momenti?

“Lo sai cosa dicono di mio padre?- dice a un certo punto Sara, che ha dodici anni ma sembra cresciuta in un attimo, con lo sguardo fermo – Dicono che in realtà non è morto per la droga ma che lo hanno ammazzato”. Sara da una settimana ha perso suo padre, trovato morto in un casolare alcuni giorni dopo la scomparsa.

Lei non era abituata alla presenza di suo padre. L’avevano arrestato quando lei era piccola, lo vedeva ogni tanto. Non aveva una buona fama nel quartiere, si diceva che non pagasse gli impegni. Era uscito da qualche anno e vivevano insieme. Suo padre. Non era stato molto presente per lei e le sue sorelle, ma era suo padre.

“Il magistrato e la gente del quartiere dicono che era niuru, pieno di lividi. E poi chi ce lo aveva portato dassutta? Come ci era arrivato a morire lì?”. Le frasi che prova a comporre, le cose che cerca di dire sono confuse, parla come chi cerca delle risposte. Non dice molto, dice solo che l’hanno ammazzato, che gli hanno fatto male, che lei sta male, ma non vuole che le sue amiche lo vedano. Si trucca pesantemente e sta sempre attaccata al telefonino. Evita le domande.

La polizia e i magistrati stanno indagando. Si cerca il colpevole – o i colpevoli – il giro in cui s’era ficcato, il traffico in cui lavorava. Si parla di traffico di droga, di roba non pagate o forse tagliata male, ma l’unica cosa che Sara capisce veramente è che ora suo padre non c’è più.

Senza scuola, perché non ci va sempre, senza prospettive, perché quando cresci in un quartiere come questo e non sai come arrangiarti funziona così, senza protezione. E adesso anche senza un padre. Rimane seduta sul muretto, propone selfie alle sue amiche o argomenti di pettegolezzo, poi si isola all’improvviso e non parla più. Rosy la può capire, ha perso suo padre quando aveva sei anni, ucciso da una famiglia rivale. E anche lei non sa cosa dire, come non sa spiegare il dolore che ancora oggi prova a volte. “Avevo promesso, quando è morto papà, che sarei andata tutti i giorni al cimitero. Non ci riesco sempre e mi sento in colpa”.

Le bambine e i bambini che crescono così, senza un genitore e con la rabbia di una perdita che non si sanno spiegare, sono tanti. C’è chi da piccolo già pensa alla vendetta, come Dario che vuole diventare poliziotto per avere la pistola con cui vendicare il padre e lo zio. C’è chi si porta dietro il dolore e basta, come se la serenità fosse un privilegio, non un diritto. Come Giorgino che parla dei suoi compagnetti di classe che invece hanno mamma e papà, ma proprio tutti e due, e rimane stupito, e ogni tanto si chiede come sarebbe vivere con la mamma, chissà dove si trova, e con il papà, in carcere, invece che con la nonna che si fa carico di lui e di suo fratello.

Tutti hanno la sofferenza di un’infanzia privata, se la trascinano appresso. Forse qualcuno di loro troverà come sfogarla. Si parla di potere, di mafia, di traffici di droga e di armi e di persone. Ma in mezzo a tutte queste ingiustizie, c’è anche quella grande e silenziosa su queste vittime bambine , quelle che non si sente, e di cui non ci si occupa, briciole di un sistema mafioso che colpisce e non lascia intero nessuno. Che stanno sedute su un muretto, con la loro rabbia e la loro solitudine, a chiedersi che c’entravano loro e perché non potevano stare tranquilli, e ad aspettare che qualcuno, un giorno, passi di lì e si accorga di loro.