San Libero – 80

daniele.jennarelli wrote:

Gentile Riccardo, immediatamente dopo i tragici fatti di Novi, la popolazione del paese se l’è presa con tutta quella genia di immigrati (negri, zingari, albanesi) che sola aveva potuto commettere un delitto tanto efferato – mica poteva trattarsi di un autoctono: la colpa era sicuramente dei tanti, troppi immigrati che avevano invaso la cittadina. Poi, la sospresa: il carnefice è locale, una persona “normale”, e saltano le già pronte manifestazioni contro gli immigrati. Immigrati, però, ai quali nessuno chiede scusa per averli accusati e condannati a priori. Mi chiedo: siamo davvero tanto razzisti? Ciao
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Questa lettera, naturalmente, è di parecchi mesi fa: l’argomento di cui parla tuttavia a quell’epoca era un “fatto di cronaca”, carne cruda, ed era quasi impossibile parlarne (almeno per me) razionalmente. Possiamo parlarne adesso, man mano che i particolari sbiadiscono e che le urla dei media inseguono altre cose. Due particolari, che non hanno alcuna importanza e che tuttavia non riesco a cancellare, sono questi: i due ragazzi si sono incontrati per la prima volta a una giostra di paese; uno dei due, appena giunto in carcere, per prima cosa ha chiesto dei Topolino. Io penso alla mia adolescenza con Topolino, l’Intrepido, i tirassegno e gli autoscontri e le fiere di paese: e questo mi basta già per non potere alzare la voce e dunque non poter essere – nell’immediatezza – un giornalista.
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Daniele, ovviamente, afferra l’aspetto “politico” di quanto è successo. Un ragazzo albanese, assolutamente innocente, è sfuggito al linciaggio solo grazie alla serietà professionale di magistrati e carabinieri; se ci fosse stato uno sceriffo americano o “padano”, sarebbe stato impiccato. I leghisti (che ora ci governano) non hanno perso un istante nell’usare la tragedia per scatenare le manifestazioni-pogrom alla luce delle torce.
Tutto questo è verissimo, ed è quello che avrei scritto io stesso, il mio punto di vista di buon cittadino di sinistra. “Buttarla in politica”, civilmente, visto che la politica già c’era: sarebbe stato giustissimo, e tuttavia fuorviante e inutilmente consolatorio verso noi stessi. La politica infatti c’entra, ma molto più profondamente e molto più coinvolgendoci di quanto noi progressisti non sospettiamo.
La storia di Novi Ligure, intanto, è una storia datata. Pochi anni fa l’Università di Tor Vergata ha fatto un’indagine sociologica su un campione di 670 omicidi avvenuti in Italia. Di essi, 151 risultavano aver radice in una maniera o nell’altra in ambito familiare. La famiglia è violenta, potremmo dire; o tende ad esserlo più che nei decenni precedenti. Non è la prima volta che succede (pensiamo alla vecchia famiglia contadina di fine Ottocento) ma succede ora: nella scala della patogenicità, che storicamente ha i suoi alti e bassi e i suoi cicli, la famiglia odierna si colloca ai valori alti. Vorrà dire qualcosa.
Nel caso di Novi Ligure l’ambiente patogeno – la radice dei comportamenti, la pedagogia della violenza – è costituito con ogni evidenza dalla comunità territoriale. Non ho elementi statistici per dirlo. Ma ricordo benissimo, alla tv, i visi degli intervistati nei giorni fra l’omicidio e la risoluzione del caso. Il tabaccaio, la casalinga, il passante – gente comune. Non avevano alcuna informazione su quanto era successo, ma avevano le idee molto chiare. Con voce sommessa e sorrisetti imbarazzati, da intervistati, chiedevano senza esitazione rastrellamenti, pogrom, pene di morte. Avevano voci chiare e angoli facciali distorti. Dicevano cose orribili, serenamente, e le loro facce, soddisfatte di se ed inumane, erano esattamente quelle del paesano tedesco degli anni trenta. Facce di mostri.
Politica, leghisti, imbarbarimento di destra? Forse sì in parte, ma non principalmente. Non so chi abbia vinto le elezioni a Novi, ma la storia della comunità è quella di una piccola cittadina operaia, con una sinistra relativamente forte, con un common sense solidaristico fino a pochi anni fa. Quelle stesse persone, tuttavia, avrebbero tranquillamente assassinato degli innocenti, senza pensarci troppo, e l’avrebbero fatto senza dividersi fra destra e sinistra; l’avrebbero fatto con la stessa feroce innocenza di un qualunque paesino dell’Alabama degli anni trenta.
Certo, non ci sono arrivati da soli a tutto questo. A parte la politica, i media hanno fatto la loro parte nel decivilizzare la “gente”. Le locandine gialle con gli ultimi strilli sui giovani “mostri”, la compunta morbosità delle tivvù appostate, l’elegante macelleria di giornalisti civili e snob (penso alla Stella Pende di Panorama) sono stati un modello da scuola di new giornalismo, coi pezzi di carne cruda gettata all’audience. Alla fine, il risultato era ceh non ci trovavamo più a Novi Ligure (gli operai, la Resistenza, la vita civile, le relazioni) ma in un qualunque paesino della Bassa Baviera o dell’Alabama o del veld sudafricano: comunità senza storia, i cui unici impulsi collettivi sono quelli della difesa anti-estranei e del pogrom. Comunità che, per loro natura, *debbono* ciclicamente generare dei mostri. E sono i più teneri, i più indifesi – l’adolescente hitleriano; o i due ragazzini che andavano alle giostre – ad essere più facilmente fatti tali.
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È come ritornare da un lungo viaggio e scoprire, dentro il proprio paese, una popolazione malata. La colpa principale, in questo meccanismo che ritorna, non ce l’ha Bossi o Feltri, ma ce l’abbiamo noi. Noi, della generazione del Sessantotto, siamo stati gli unici, per una serie di circostanze, ad avere la possibilità di trasformare davvero il sentire profondo di questo paese. In parte l’abbiamo fatto. In parte vi abbiamo rinunciato. Siamo riusciti a imporre – poichè abbiamo voluto farlo – i comportamenti “moderni” compatibili con la tranquilla continuità dei ceti medi, a cui noi apparteniamo. Non siamo riusciti a imporre – poichè non abbiamo voluto farlo – quei comportamenti e quei modi di essere che avrebbero potuto mettere in discussione i privilegi di cui, già da ragazzi, godevamo.
A Novi, come in ogni altro luogo d’Italia, i ragazzini si vestono come vogliono, passano le serate a modo loro, godono di un’indipendenza sostanzialmente acquisita: questo è ciò che abbiamo dato loro, e non gli impedirà affatto di essere – quando saranno grandi – stronzi e infelici come noi siamo stati. A Novi, come in ogni altro luogo d’Italia, i ragazzini ubbidiscono alla televisione, s’impauriscono davanti a ciò che non conoscono, deridono i più poveri di loro, ignorano il loro corpo e se stessi, si aggrappano a quelle piccolissime cose (oggi il telefonino, domani l’automobile) che non danno e non daranno mai loro un briciolo di felicità ma che gli danno un minimo di grigia sicurezza: esattamente quel che gli abbiamo insegnato noi cinquantenni, e che essi insegneranno, quando sarà il loro tempo, a loro volta.
Noi però, che abbiamo avuto diciott’anni nel Sessantotto, avremmo avuto delle altre cose da insegnare, che abbiamo visto e vissuto, e che sapevamo essere vere. Per viltà e quieto vivere, non l’abbiamo fatto.


Isole – I

Isole lievi lontane Respirava
sommessamente la marea lottavano
piccoli granchi sullo scoglio nero
a fiore d’acqua libero leggero
il vento fra le gambe nude – Mai
saremmo morti amore mai lontani