San Libero – 36

Libertà di stampa. A Catania è vietato comprare Repubblica. O meglio: Repubblica edizione nazionale è permessa; l’edizione regionale invece no; e dire che si stampa proprio a Catania, presso la tipografia di Mario Ciancio. Il problema è che Ciancio (l’attuale presidente della Federazione editori; è quello che, nel suo giornale La Sicilia, fece una gran cazziata a un cronista che si era permesso di parlar male di un mafioso, e gliela fece davanti al mafioso) Ciancio, dicevamo, per stampare Repubblica pretende che Repubblica non venga però a fargli concorrenza in casa. E Repubblica, buona buona, cala le brache. Così i catanesi liberali, quando vogliono vedere che cosa scrive dei siciliani Repubblica, prendono l’automobile e aumma aumma se ne vanno a Taormina. Là – Taormina è provincia di Messina – Repubblica è in libera vendita senza censure e per millecinquecento lire puoi comprartela, nascondertela nel bagagliaio della macchina e tornare a Catania a leggertela di nascosto.


Trasparenza. Durerà 50 anni il segreto di stato sui documenti dei servizi segreti Cesis, Sismi e Sisde. Il decreto è uscito esattamente un anno fa sulla Gazzetta ufficiale.


Hai mai visto i delfini? (Seguivano il vecchio postale Napoli-Palermo; e, prima ancora, le triremi).


Vecchi. Secondo l’Inps, l’anno scorso i pensionati hanno pagato circa venticinquemila miliardi di tasse. Negli ultimi dieci anni le ritenute fiscali sulle pensioni sono aumentate del duecentosessanta per cento.


Giovani. In media, adesso gli italiani si sposano a trent’anni. È anche, più o meno, l’età della prima maternità delle donne. Fra le donne che lavorano, una su dieci non va in maternità ma appena aspetta un bambino si dimette senz’altro, “spontaneamente”, dal lavoro. Fra i giovani sopra i venticinque anni, due su cinque sono costretti a vivere ancora nella famiglia paterna. Una famiglia su quattro dipende economicamente dalla pensione del nonno.


Non riesco più a leggere il greco. È un guaio, perchè così ho difficoltà a tenermi al corrente degli avvenimenti. (Come faccio a sapere chi sarà il prossimo imperatore degli Stati uniti, se non mi dà una dritta Polibio?)


cieffegi wrote:
< Gentilissimo signor O.,
non crede di avere un atteggiamento esageratamente anti-italiano, soprattutto nel trattare questioni di immigrazione? Leggendo i suoi articoli, si ha spesso l’impressione che gli italiani siano un popolo di bastardi (scusi il termine), mentre ho l’impressione che la percentuale di stronzi (perdoni l’espressione) sia nell’ordine di quella che, in statistica, chiamiamo “popolazione normale”. Se è vero che c’è inciviltà è anche vero che c’è spesso solidarietà, forse più al centro/sud che al nord. Poi cosa vuol dire che i Bolognesi cercano di imitare i tedeschi? Ultimamente a me sembra che i miei concittadini tendano a imitare più che altro dei comuni menefreghisti, sempre più indifferenti e insensibili.
Da ultimo, gli albanesi che affogano mi sembra che non abbiano proprio nulla a che fare col fascismo. Possono avere a che fare con la criminalità o altri fenomeni analoghi, ma non chiamiamo in causa questioni ideologiche, perchè si fa in fretta a perdere di vista il vero problema (e a scordarsi di risolverlo). A proposito, se noi siamo razzisti e fascisti perchè non riusciamo a evitare ogni singola tragedia, come dobbiamo definire qualche immigrato un po’ troppo svelto con le armi da fuoco e un po’ troppo portato a usarle (spesso con esiti mortali) per alleggerire gli italiani dei loro averi? Povere vittime della società capitalista che li induce al furto e all’omicidio sbattendogli in faccia la sua opulenza, immagino. Non certo comuni criminali giunti sul nostro Paese con il preciso intento di perpetrare la loro attività contando sulla quasi impunità assicurata da uno stato fin troppo garantista. >
Caro amico,
Lei ha ragione nel dire che, sulle questioni di immigrazione, mi viene naturale un atteggiamento “esageratamente anti-italiano”. Esso deriva da un eccesso di nazionalismo. Non quello degli italiani di destra: quello mio. Vede, quando parliamo di nazione, siamo portati a pensare ai bei discorsi, alle bandiere, all’avanti savoia e a alla patria immortale – a roba di destra, insomma. Invece, la nazione è una cosa di sinistra.
La nazione è il porto di Messina, con la nave che va in Australia pronta a partire, i contadini di Caltanissetta e Favara sul ponte e i parenti sulla banchina, tutti ridanciani e chiassosi, per dare coraggio a chi parte. Sciolgono gli ormeggi, e la nave si stacca. E in quel preciso momento, cogli emigranti tutti aggrumati a poppa e i parenti sulla punta del molo, che ormai piangono liberamente perchè tanto da lontano non si vede, la banda, che fino allora aveva suonato canzonette allegre, comincia a suonare l’inno: il primo e l’ultimo, per la maggior parte di loro, della loro vita. Questo non succedeva nell’Ottocento: succedeva vent’anni fa. Ci sono duemila emigranti, nella città di Sidney, di Santa Marina Salina; a Santa Marina, ne saranno rimasti forse mille. C’era il consolato australiano a Messina, fatto apposta per loro. E prima quello del Belgio, per le miniere. E prima quello argentino, quello americano…
C’è un poeta veronese, Barbarani, di cui i veneti si sono ormai dimenticati da un pezzo; e io non ne ricordo che un verso, ma che è tutto un mondo; siamo fra gli emigranti veneti, “seradi” all’osteria, la sera prima della partenza: “Porca Italia!, i biastema, andemo via”. Ci sono i genovesi, in Argentina, e i lombardi, e un’intero quartiere che si chiana Palermo. Ci sono gli italiani d’America, fisici nucleari e mafiosi. Ci sono i bergamaschi, che andavano a lavorare in Francia; e una volta la popolazione di un’intera provincia scatenò il pogrom contro di loro e ne fece strage. C’è Bologna (il sogno di noi siciliani di sinistra, un tempo, era che Palermo diventasse un’altra Bologna) dove, se Lei va a fare due passi alla Montagnola, si trova esattamente nel posto dove una volta c’era la fortezza papalina che controllava la città. Quattro volte la distrussero, i bolognesi, e quattro volte il papa la ricostruì; la quinta, restarono a vincere loro e ne fecero terra e ci fecero su i giardinetti. Tutti insieme, questi sono gli italiani.
Ci sono pochi paesi al mondo che abbiano avuto tanto kitsch di generali e politici come l’Italia; ma pochi che abbiano avuto, nella grandissima parte dei cittadini, tanta storia di vita e tanta umanità. Il nostro, molto più che uno stato, è – o era – una cultura, un modo d’esserci; un software. Facile da sfasciare pestando a casaccio sul computer; difficilissimo, e probabilmente impossibile, da rimettere insieme.
Non so se ci sarà ancora un’Italia fra dieci anni, o solo una specie di Belgio o un’Alabama. In quest’ultimo caso, sarà un peccato per tutti: perchè non sono molti i posti del mondo dove si sia riusciti, per tanti secoli, ad essere poveri e tuttavia signori, e dove si sarebbe potuto essere finalmente ricchi restando umani. Avremmo potuto insegnare ai poveri del mondo come si fa ad uscire dalla miseria e ai ricchi come si possono usare dignitosamente i denari. Invece stiamo preferendo imitare pacchianamente e maldestramente i ricchi di più antica data, e scalciare ferocemente contro i poveri che ancora si dibattono indietro.
I tempi delle nazioni non sono quelli della cronaca, e dunque quello attuale, chissà, potrebbe essere solo un involgarimento passeggero. Ma potrebbe anche essere la fine definitiva di una storia che dura da più di duemila anni. Noi non abbiamo una hispanidad sparsa nel mondo nè un commonwealth nè una cultura illuministica che comunque coinvolga altri paesi. Siamo solo noi italiani d’Italia, con la nostra lingua parlata solo da noi stessi, con la nostra identità sofisticatissima ma delicata, con i nostri meccanismi etologici quasi impossibili da analizzare – e tutto questo può sparire, per incultura, demagogia e rozzezza, nel giro di una generazione.
Questo mi brucia. Per questo mi prende il panico quando sento che un italiano è razzista: la mafia, il fascismo, le ruberie sono cose contro cui, in tanti secoli, abbiamo sviluppato anticorpi. Il razzismo, ci è nuovo.
Al resto della Sua lettera mi consenta di rispondere, molto sommariamente, che i delinquenti albanesi, come quelli polinesiani o italiani, vanno messi in condizioni di non nuocere e puniti; non in quanto albanesi, ma in quanto delinquenti. Ma noi, ceto medio italiano, vogliano ancora davvero punire i delinquenti? Dove sono finiti i soldi dei banchieri mafiosi? Come stanno venendo utilizzati in questo preciso momento? Interessa ancora a qualcuno?
Non rispondere a queste domande ci toglie la capacità etica di punire i delinquenti “albanesi”. Questa potrà sembrarLe una questione astratta, sebbene le questioni etiche (“Quante divisioni ha il papa?”: e sorrisetto di scherno) alle volte tornino a galla con una concretezza fin troppo bruta. Il fatto è che l’omertà sulla *nostra* delinquenza d’alto bordo ci toglie anche la capacità tecnica e pratica di colpire realmente la delinquenza “straniera”. Nessuno ha il coraggio anche solo di sfiorare questo argomento, perchè qui non se ne esce con facili demagogie razziste o buoniste ma solo incidendo con dolore. Ma questo è già un altro discorso.


Pindaros pynd@eleutheros.el > wrote: < Fior di viola, splendente,
vivi nei canti, Atene,
tu che hai difeso l’Ellade, tu ardita,
tu città degli dei >