San Libero – 339

3 settembre 2006 n. 339

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Autunno. Una parte dei siciliani – diciamo un terzo – è decisamente contro la mafia e approfitta di ogni occasione per schierarsi e contarsi. Un’altra parte, il 15-20 per cento, la accetta e ne condivide non i valori (la mitica e tutto sommato folkloristica “cultura mafiosa”) ma gli interessi, dal commerciante protetto all’imprenditore colluso. Il resto è palude, che si schiera di qua o di là a seconda dei momenti e delle emozioni.

Il potere mafioso, come ogni dittatura, non opprime tutti: a una parte della società – quella che Mario Mineo definiva “borghesia mafiosa” – toglie dignità e cultura, ma concede privilegi sostanziali (ad esempio l’abolizione della concorrenza) in una sorta di sanguinoso protezionismo.

Non è vero che i commercianti di Palermo siano costretti a pagare il pizzo: la maggior parte lo paga come si paga una tassa sgradevole ma utile, avendone in cambio dei benefici. A Catania-periferia accadono molte più rapine che in ogni altra città d’Europa, ma a Catania-centro (cioè presso la borghesia mafiosa) le rapine sono rare, essendovi – a pagamento – punite con la pena di morte.

Ecco: non c’è una Catania, una Palermo, una Sicilia: ce ne sono due. Una sotto dittatura, una ligia al regime. Delle due, sociologicamente, la prima è composta da lavoratori dipendenti e ceti medi, la seconda da imprenditori, percettori di reddito e ceto “politico” professionale. In più, poiché qui non esiste nè economia né mercato, tutte le risorse economiche – piccole e grandi – sono “politiche”, cioè
distribuite dal potere. Producono, nello stesso momento, violenza e consenso. Danno luogo a un regime articolato ma monolitico, in cui la diversità delle funzioni (manganellare gli oppositori o celebrare i valori della famiglia) non esclude una totale omogeneità. Più o meno la situazione del ’36. Non si può essere antimafiosi “moderati”, esattamente  come non si poteva essere antifascisti a metà.

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In questa situazione, l’antimafia “normale” funziona ancora o serve ormai solo a consolare? Le cerimonie, le celebrazioni, fanno ancora danno al potere mafioso? Che cosa possiamo fare di più concreto?

Ci sono tre direzioni precise in cui possiamo impegnarci, tenendo conto che, con un governo di centrosinistra, non siamo formalmente privi di interlocutori. La prima è la vecchia e utilissima idea dell’utilizzo popolare dei beni mafiosi confiscati. Un giudice che si occupa del caso Tanzi, il pubblico ministero Francesco Greco, ha detto qualche mese fa che le somme confiscate ai ladroni potrebbero essere reinvestite e gestite, più o meno come s’è fatto con le proprietà di Riina. Al Senato c’è un disegno di legge, ispirato dall’ex sindaco di Corleone Cipriani, che prevede esattamente questo. Allo stato, non è fra le priorità del centrosinistra. Ma potrebbe essere imposto dal basso, se se ne facesse carico un movimento forte e screanzato.

In secondo luogo, bisogna mettere al centro dell’antimafia (e in correlazione col punto precedente) la lotta contro la precarizzazione della Sicilia, dei giovani siciliani. In Sicilia, più che nelle altre regioni (e probabilmente anche prima) il concetto di lavoro dipendente è sparito dal panorama sociale, sostituito dall’occupazione momentanea (“u travagghiu”) senza diritti. Il lavoro precario rafforza dappertutto le tendenze autoritarie e pre-keynesiane: in Sicilia, dove l’autoritarismo è istituzionale e si chiama mafia, rende di fatto impossibile qualunque alternativa politica, per eccesso di clientelismo e di disgregazione. Mai il centrosinistra o qualunque altra politica civile riuscirà a ottenere la maggioranza in un paese in cui le famiglie e i giovani dipendono dal benvolere di questo o quel politico per un anno e un altr’anno e un anno ancora di sopravvivenza materiale.

Infine, bisogna individuare senza illusioni i settori mafiosi di massa e intervenire adeguatamente. Pagare il pizzo deve diventare un reato grave, che porta al sequestro dell’esercizio (e al suo riutilizzo per fini sociali). Paesi a prevalenza mafiosa come Cinisi non devono continuare a godere dell’uguaglianza di diritti col resto del paese ma debbono essere sottoposti, per il periodo necessario, a regime particolare. I politici condannati debbono rifondere i danni civili, per lesione d’immagine, a tutti i singoli iscritti ai rispettivi partiti che ne facciano richiesta.

L’antimafia, insomma, dovrebbe diventare meno simpatica e più concreta. Incidere sulla società, anche con “prepotenza”, perché la società – la nostra società – si sta sfaldando. Non si possono fare dibattiti coi delinquenti di Scampia o con Dell’Utri. Nè con chi li rappresenta o gli è vicino. Qui, semplicemente, o noi distruggiamo – socialmente – loro, o loro distruggono – socialmente e a volte anche fisicamente – noi. Da questo punto di vista, non solo è debole la politica del centrosinistra in Sicilia ma lo è anche, da dopo la campagna elettorale, quella dell’antimafia organizzata. Adesso ci sono dei nuovi interlocutori – i giovani del RitaExpress e di Addiopizzo – e si spera che almeno loro sappiano muoversi senza compromessi e in fretta e senza lasciarsi risucchiare dalla palude.

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Giustizia. Marco Benanti è un giornalista catanese che, poiché a Catania è proibito fare il giornalista, alla fine ha trovato lavoro come operaio in una ditta che fa lavori di carico alla base di Sigonella, la Algese2. Il padrone dell’Algese2 però ha saputo che Marco aveva scritto in passato degli articoli pacifisti e quindi, per non irritare gli americani, l’ha licenziato. C’è stata una causa di lavoro e il Tribunale di Siracusa ha dato ragione al padrone, confermando il licenziamento. Marco ha fatto appello. Il Tribunale ha deciso che dell’appello si parlerà… fra due anni, nell’ottobre del 2009 (Anno LXXXI E.F., secondo il calendario di qua).

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“A Catania non è stato imbavagliato questo o quel singolo giornalista, ma un’intera scuola. Il giornalismo degli allievi di Fava, che aveva prodotto decine di professionisti validi e capaci, è stato semplicemente cancellato dai giornali, dalle tv e dall’università. Via da Catania, o la fame. Un culturicidio di massa, di cui è responsabile la destra (collusa coi poteri mafiosi), quasi tutta la sinistra ufficiale (zitta e muta in cambio di qualche briciola) e l’orrida e provinciale casta degli intellettuali catanesi, in confronto a cui le prostitute e i viados sono modelli di indipendenza e dignità”.

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Gelatai di tutto il mondo unitevi. Da oggi i gelatai d’Italia hanno un alleato in piu’: e’ il pinguino di Linux, che essendo notoriamente amante del freddo ha pensato di aiutare le gelaterie a tenersi in tasca i soldi che altrimenti avrebbero dovuto versare alla Microsoft e alla Siae. Il trucco e’ semplice: basta mettere in negozio un computer con un sistema operativo libero e gratuito (Linux, per esempio) e poi dargli in pasto musica rilasciata con licenze di libero utilizzo (Creative Commons e non solo). In questo caso chi ci rimette e’ soltanto la Siae, che di fronte all’utilizzo di sistemi operativi e musica liberati dalla gabbia del copyright non ha potuto fare altro che prendere atto della situazione e autorizzare a tempo indeterminato la diffusione pubblica di musica d’ambiente “free” senza chiedere nessun compenso. Il tutto e’ stato messo nero su bianco in un documento del 25 luglio scorso, protocollato presso l’Ufficio Multimedialità della Siae con il numero 1/290/06/FDP.
Grazie a questa piccola ma significativa battaglia legale c’e’ una gelateria di Roma, nel cuore di Trastevere, che al posto di versare soldi alla Siae ha allestito uno spazio multimediale con impianto stereo e monitor LCD totalmente gestito da un computer con sistema operativo Linux, dal quale vengono diffuse opere audiovisive di pubblico dominio.
Per aiutare anche altri esercizi commerciali a liberarsi dai balzelli Siae il network Frontiere Digitali ha realizzato sul proprio sito uno sportello elettronico di consulenza che fornisce informazioni dettagliate su tutte le procedure burocratiche da seguire. Gli autori di musica e video “liberi” possono segnalare via web la propria disponibilita’ all’uso gratuito delle proprie opere in tutte le gelaterie e i negozi che sceglieranno di praticare l’autoliberazione dalla schiavitu’ del copyright. [carlo gubitosa]
Bookmark: www.frontieredigitali.net

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Ansa. Agrigento. Un gatto è entrato dentro una villa alla periferia di Licata e ha aggredito una famiglia composta da quattro persone. Padre, madre e due figli hanno tentato di allontanare l’animale che si trovava nel soggiorno della casa ma il felino si e’ inferocito. I quattro si sono barricati nella camera da letto e hanno chiamato i vigili del fuoco che hanno catturato il gatto.

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L’arte di raccontare e il mestiere di diventare uomini.
Li vediamo crescere, quotidianamente. Li ritroviamo a lezione, imballati per la timidezza, mentre rimuginano un intervento, una domanda che poi rimanderanno giù. La mattina dell’esame si presentano, con il volto segnato dopo una notte da Getsemani, e c’è sempre qualcosa che non va bene: l’emozione, il docente sadico, un collega premiato troppo. Si indignano, alcuni, altri scrollano le spalle. Spesso ciondolano per i corridoi della Facoltà: discutono, prendono cotte, litigano. Diventano – lentamente, impercettibilmente – adulti, mentre il filo esile delle loro emozioni si fa corda robusta, alzaia. E accade, a volte, nel mito fordista che questa università impone – produrre laureati, il maggior numero possibile, nel minor tempo possibile – di perdere il senso del percorso umano di questi ragazzi. Di rigettare come una fastidiosa zavorra l’unica domanda che davvero importa: e dopo, cosa li aspetta?
Questa, in principio, doveva essere una garbata presentazione. Una diligente relazione su un lavoro compiuto durante un laboratorio, uno dei tanti, Il reportage tra giornalismo e narrativa. Avrebbe dovuto stilare un rendiconto puntuale delle ore di lavoro, degli obiettivi realizzati, di quelli mancati. Poi presentare discretamente la rubrica che da tale lavoro nasce: La città invisibile, che vedrete scorrere di giovedì in giovedì per tutta l’estate su questo giornale. Una raccolta di reportage sulla città di Catania: i suoi figli meno coccolati, le sue ferite frettolosamente suturate e sottratte alla vista, le sue voci soffocate, o solamente inascoltate per un vizio d’abitudine. Avrebbe dovuto, infine, intonare una moderata soddisfazione per l’attività svolta, e augurarsi – come da rito – che l’esperienza potesse proseguire per l’anno prossimo.
Tutte cazzate, con rispetto parlando. Perché, una volta tanto, qualche pensiero deve essere pure speso per loro, per i nostri ragazzi: non solo per riconoscere il merito di una crescita costante e silenziosa. Anche per chiedersi, in onestà, a cosa servirà loro questa esperienza. Hanno imparato che si può domare il linguaggio, irrobustire lo stupore e le emozioni dei loro vent’anni attraverso un uso cosciente della parola. Limando l’esuberanza degli aggettivi, smussando la legnosità di certe frasi rituali. Hanno mosso, faticosamente, i primi passi di un percorso: risentendosi per delle correzioni forse troppo aspre, difendendo i termini che avevano scelto, accettando di riscrivere lo stesso pezzo quattro, cinque, sei volte, rifuggendo alla tentazione di fabbricarsi alibi. Hanno imparato a non essere premiati per lo sforzo, ma solo per la qualità dei loro articoli. Qualità su cui voi stessi giudicherete, leggendo. Qualità che vibrerà forse come una corda stonata, in questa città assonnata, abituata a tacere: e avvezza, nel proprio silenzio, ad accordarsi splendidamente con la mediocrità del quotidiano locale.
Resta dunque, al di là dell’orgoglio e della commozione con cui li abbiamo seguiti, la preoccupazione di quanto servirà loro questa capacità acquisita. Il sospetto che, forse, sarebbe stato meglio insegnar loro a cantare le priapesche virtù o i trionfi amatori del signorotto di turno – come leporelli o, persino, come tonizermi qualunque – per inserirli più opportunamente in lista d’attesa per il mondo del lavoro. Insegnare loro l’arte del silenzio, del pudore e non quella della parola: formare discreti, appetibili pennivendoli.
È che – adesso, forse, lo possiamo confessare – non è mai stato nelle nostre intenzioni sfornare, malinconicamente, giornalisti disoccupati. Volevamo, innanzitutto, provare a formare uomini liberi. Perché abbiamo creduto, sempre creduto, nella forza rivoluzionaria della parola. Nella capacità di resistere, attraverso essa, alle verità precostituite, ai silenzi pelosi. Perché riconosciamo nelle pulsazioni vitali della nostra lingua un continuo atto di resistenza contro la mediocrità del mondo che ci circonda. Perché crediamo che imparare a definire la realtà che ci sta attorno – da Adamo in poi, dalla Genesi in poi – sia un modo per prendere coscienza di essa. E per dominarla.
In principio era il Verbo, recita l’incipit di uno dei best seller della letteratura di tutti i tempi. E di quest’affermazione, riconosciamo – come Sepúlveda – una verità filologica, prima ancora che teologica: la parola come atto di fondazione della realtà, per cui le cose esistono solo dal momento in cui sono nominate. Crediamo che la tecnica dello scrivere e del raccontare sia uno dei modi attraverso cui imparare il mestiere di vivere. Vivere nell’unico modo che riconosciamo possibile: con gli occhi aperti, con i sensi desti. Vivere da uomini liberi. Per questo dei nostri ragazzi siamo fieri. Saranno meno indifesi di fronte al bombardamento mediatico di isole, case, fattorie, salotti patinati nella forma, finti nei contenuti, fedeli a se stessi – e alla propria volgarità – nel linguaggio. Saranno più atti a resistere, perché «raccontare è resistere». Così ci è stato insegnato, e così abbiamo tentato di insegnar loro.
Già: c’è sempre, dopo ogni segmento di cammino percorso, l’abitudine di tirare il fiato, voltarsi indietro, e guardare, con soddisfazione, il punto da cui si era partiti. Più lontano il punto, più pastosa la soddisfazione. Così anche per chi vi scrive. Credere, sperare di aver fatto crescere degli uomini e, poi, rivolgere il pensiero a Giuseppe Fava. E a Claudio, Miky, Riccardo, Gianfranco, Sebastiano. Ricordare, come ogni volta, i compagni e l’esperienza de I Siciliani. Non come un tributo, ma semplicemente per l’esigenza di tracciare una geometria che restituisca il senso di un percorso comune: con la certezza che nulla, di quello che è successo, è accaduto invano, se dopo ventun anni ancora cova la voglia di scrivere, il rifiuto di tacere. E nulla è, infatti, accaduto invano, se alla fine è pensando al Direttore che anche questo sforzo riacquista un suo significato. Questo, come ogni altro. [fabio gallina]

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Rinaldo <r.di.t@libero.it> wrote:
< Ti seguo ormai da anni con vivo interesse e sebbene a volte assolutamente faziosi leggo con piacere i tuoi interventi. Alle ultime elezioni regionali ho sperato come voi in una vittoria schiacciante di Rita Borsellino, sebbene non sia Siciliano. Beh, la vittoria non c’è stata, anzi abbiamo subito una terrificante sconfitta. Quella elezione, a mio avviso, non era un confronto tra centrodestra e centrosinistra. Ma era un referendum: Mafia SI-NO. I Siciliani forse non hanno scelto la Mafia, ma sicuramente hanno scelto di non voler cambiare. Non penso che in futuro per la Sicilia ci sarà un’altra possibilità di cambiare così radicalmente. L’occasione è stata irrimediabilmente buttata alle ortiche. In te vedo una grande voglia di fare di cambiare, ma mi sono convinto che la maggior parte dei cittadini Siculi, questo cambiamento non lo vogliono. La mia domanda per te è: in totale sincerità credi veramente che in Sicilia cambierà mai qualcosa? Io sono sicuro di no >

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tillneuburg@virgilio.it wrote:
< Sono due anni che hanno ucciso Enzo. Lo sgomento, la rabbia, l’enorme buco, sono sempre lì. Non si è ancora cicatrizzato.
Queste scarne righe le scrivo da un nascondiglio. Oggi non voglio vedere e sentire nessuno. Voglio stare solo con i miei ricordi. I ricordi che Enzo ha inciso nella mia durissima testa.
I suoi assassini sono sempre lì. Nell’Iraq, a Washington e a Roma. Ogni giorno il loro ghigno mi persegue. Li vedo, li sento, li leggo in troppi posti.
Eppure, dalle foto Enzo continua a sorridermi. E io voglio ricambiare quei suoi sorrisi. Ci provo con sforzi immani – chissà se dalla mia faccia indurita e stiracchiata uscirà qualcosa di amichevole, di bello, di solare.
Non c’è nessuna frase strafatta, nessun rito, nessun dio che mai mi ridarà quei momenti che ho passato con lui: si rideva tanto, forse a volte si scriveva tantissimo, ma sicuramente ci piaceva lasciarci andare come due adulti alle prime armi. Quanto mi mancano quelle deliziose cazzate, quegli sguardi di complicità, quelle curiosità da bambini che vogliono capire come funzionano le cose.
Chi scansa con attentissimi zigzag i misteri dello zodiaco, del successo e delle chiese, a volte riesce a incocciare nell’unico mistero che vale la pena di celebrare: l’amicizia. Ho avuto la fortuna sfacciatissima di godere per anni della sua. Un’amicizia che non faceva mai rima con malizia o furbizia. Era solo grande e grossa come lui.
Sono due anni che hanno arpionato una balena che ballava nelle acque sbagliate. Nelle acque dove la calma piatta della violenza e dell’ipocrisia sono l’immobile sciabordio della stupidità.
Ma noi continuiamo cocciutamente a leggere ad alta voce Moby Dick.
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Berto Barbarani  wrote:

I VA IN MERICA  

< Fulminadi da un fraco de tempesta,
l’erba dei prè par ‘na metà passìa,
brusà le vigne da la malatia
che no lassa i vilani mai de pèsta;

ipotecado tuto quel che resta,
col formento che val ‘na carestia,
ogni paese el g’à la so angonia
e le fameie un pelagroso a testa!

Crepà la vaca che dasea el formaio,
morta la dona a partorir ‘na fiola,
protestà le cambiale dal notaio,

una festa, seradi a l’ostaria,
co un gran pugno batù sora la tola:
“Porca Italia” i bastiema: “andemo via!”

– Drento l’Otobre, carghi de fagoti,
dopo aver dito mal de tuti i siori,
dopo aver fusilà tri quatro goti;

co la testa sbarlota, imbriagada,
i se dà du struconi in tra de lori,
e tontonando i ciapa su la strada >

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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)