San Libero – 122

Laggiù. Rispetto alla settimana scorsa, succedono più o meno le stesse cose. Solo che prima le facevano e ora, oltre a farle, le teorizzano apertamente. Le stragi con le bombe adesso – diversamente che all’inizio – sono considerate una forma di resistenza da buona parte degli occupati; i terroristi, che prima venivano reclutati fra i pazzi fanatici, adesso lo sono fra le persone normali. Dal lato degli occupanti, i massacri – ormai di massa – commessi dai militari adesso non vengono più negati, e anzi in un certo senso vengono minacciosamente esibiti.

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Indiani e cow-boys. “Il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato…”. Gli stati uniti: il Dakota, l’Illinois, il Delaware… La maggior parte dei nomi degli Stati Uniti sono i nomi di antiche tribù indiane. Che adesso non esistono più.
I Delaware erano dei raccoglitori-pescatori che vivevano sulla costa atlantica; una piccola tribù. Furono fra i primi a incontrare i coloni, e dunque fra i primi a estinguersi fino all’ultimo uomo.
Gli Illinois, nella zona dei Laghi, erano cacciatori; il loro incontro con la civiltà avvenne ai primi dell’Ottocento e il loro ricordo oggi sopravvive soprattutto nel logo di alcune automobili di lusso – le Cadillac – cui un generoso ufficio marketing volle dare il nome di un capo indiano.
I Dakota, infine – North Dakota e South Dakota – erano quelli che al cinema e nei nostri giochi dell’altro secolo venivano chiamati i Sioux. Da loro la civiltà occidentale arrivò abbastanza tardi, quasi a mezzo Ottocento; avevano avuto tutto il tempo di raccogliere e allevare i cavalli sfuggiti alle mandrie degli spagnoli e di specializzarsi come cacciatori a cavallo nella prateria; e di sviluppare un ethos, fra il cavalleresco e il calabrese, che ne faceva personaggi ideali per i film d’avventure. Batterono un paio di volte la cavalleria degli Stati Uniti e poi, non possedendo nè artiglieria nè politica, vennero a loro turno estinti.
Il capo, dal nome impronunciabile (approssimativamente tradotto in Toro), era l’incarnazione di tutto l’indianesimo e il terrorismo che popolava gl’incubi dei politici perbene. Non era un terrorismo inventato: le fattorie isolate – che i coloni, ignoranti o noncuranti della politica, impiantavano nel mare d’erba nonostante i trattati che lo vietavano – venivano assalite e bruciate alla prima occasione e i loro abitatori, uomini donne e bambini, uccisi. I giovani guerrieri tornavano poi a rifugiarsi nella tribù; pochi giorni dopo, una colonna con artiglieria piombava sul villaggio che li aveva accolti (o almeno su uno simile, che è lo stesso) e lo radeva al suolo, facendo attenzione a che non sopravvivesse nemmeno una squaw (matrice di futuri terroristi) o un papoose, terrorista fra pochi anni.
“L’unico indiano buono è l’indiano morto”: la frase, probabilmente, non fu mai pronunciata dal generale Sherman; ma effettivamente sopra gli indiani vivi non si possono innalzare città e fabbriche mentre sopra gl’indiani morti sì.
Le trattative con Toro furono dichiarate impossibili molto a lungo; alla fine, ci fu un trattato (anzi, due o tre trattati) in seguito al quale i Dakota consegnarono armi e cavalli mentre a Toro fu data autorità e indipendenza sopra alcune baracche, rapidamente invase, peraltro, alla prima occasione dalla truppa. Toro fu ucciso alla fine da un indiano civilizzato, uno scout dell’esercito, che gli sparò dopo una lite. Aveva avuto il tempo di essere portato in giro – in un momento “politico” – nel circo del Selvaggio West, che traversò l’Europa e gli Stati Uniti, e di essere intervistato da un giornalista.
“Gli uomini bianchi? Eh, ci hanno portato via tutto, non si sono comportati bene”. “E gli indiani? Cosa mi dice degl’indiani?”. Il vecchio capo dette uno sguardo in giro, guardò quel ragazzo con la divisa da scout, quella donna col crocefisso al collo, quel vecchio completamente muto barricato nei suoi pensieri, quel gruppo di bambini che giocavano vestiti di stracci d’uniforme, e gridando in inglese. “Indiani? Non ci sono più indiani. Io sono l’ultimo”.
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Sono stati due i genocidi, almeno due. Uno fu l’Olocausto, scientifico e concentrato in pochi anni. L’altro, quello d’America, ha richiesto due secoli – non c’era ancora un Hitler, nè come tecnologia nè come cultura – per andare a buon fine. Entrambi fanno parte di noi, entrambi c”insegnano qualcosa. Entrambi sono le tentazioni costanti della nostra parte malata.
Dei due, in questo momento, il più pericoloso e attuale è il secondo. Spingere indietro, escludere, colonizzare. Avere una fase eroica, di rischi affrontati insieme, disciplinarsi fermamente, tener testa ai selvaggi, senza paura. E in premio di questo coraggio, alla fine, una famigliola felice che tranquillamente semina la terra (adesso sua) rimuovendo le ossa che affiorano, ultimo involontario lascito di altri esseri umani. Il genocidio riuscito, insomma.
La nostra bella civiltà – “bella” senza ironia; quasi con tenerezza – si basa anche su questo. Non rimuoviamo questo fatto. E non ripetiamolo, soprattutto.

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Sinistra. È stato condannato all’ergastolo – più di vent’anni dopo il delitto – il boss mafioso Tano Badalamenti, che il 9 maggio 1978 fece rapire e uccidere Peppino Impastato, che da tempo denunciava le malefatte sue e dei suoi amici politici democristiani dai microfoni di una radio locale di un piccolo paesino della Sicilia. Peppino fu preso, stordito, legato e fatto saltare in aria con l’esplosivo. Il giorno dopo tutti i giornali titolarono sulla logica morte di un “terrorista” ucciso dalla sua stessa bomba i carabinieri cominciarono le indagini per smascherare i complici del “terrorista” (anche oggi si dice, d’altra parte, che quelli che fanno le manifestazioni contro il governo sono terroristi).
Ci volle tutta la serietà e il coraggio del giudice Chinnici (pochi anni dopo i mafiosi fecero saltare per aria anche lui) per cominciarono le indagini vere. Ci volle l’immensa forza d’animo – in mezzo alla paura che gli martellava il cervello – dei compagni sopravvissuti per trovare il coraggio di fare il primo volantino, la prima manifestazione, il primo cartello scritto a mano: “Peppino/ Impastato/ assassinato qui/ dalla// MAFIA”.
Ecco. Non è vero che tutti hanno fatto lotta alla mafia, che tutti da ragazzi sono stati di sinistra e poi giustamente sono diventati saggi. La lotta alla mafia, a quei tempi, l’hanno fatta in pochi. E di quelli che allora erano in Lotta Continua in Democrazia Proletaria e in tutta la mercanzia della “rivoluzione” alcuni erano dei compagni veri, e altri semplicemente dei fighetti vanitosi pronti a sbraitare gli slogan più terrificanti pur di avere potere e di comandare.
Io penso a quei giorni di solitudine, con la povera rete delle radio libere siciliane (Ondarossa di Siracusa, Città del Sole a Messina, radio Aut a Cinisi, Radiosud di Palermo, Onderosse nel messinese e poche altre) in cui improvvisamente – ma non tanto – si era aperto un buco, coi volantini che giravano, con le telefonate da fare, col ricordo di Peppino che adesso era solo alcuni pezzi di carne raccolti a fatica dalla polizia. Coi compagni che scappavano, e quelli che tenevano duro. Col momento in cui tu risalivi in macchina per tornartene relativamente al sicuro, e il ragazzo con cui avevi appena parlato invece restava là – poichè quello è il suo paese – a organizzare.
Quando guardate Lerner o Liguori o Mieli alla televisione, o Rossella o Ferrara (l’elenco è lungo e non si riesce a ricordarseli tutti), fatemi la cortesia personale di non pensare “quelli di Lotta Continua”. Quelli di Lotta Continua erano Peppino Impastato, gli altri erano semplicemente un’altra cosa.
Il “capo” di quelli che tennero duro allora, quello che organizzò le prime manifestazioni e le denunce e tenne duro *per vent’anni* ha un nome e un cognome, e si chiama Umberto Santino. Non lo conoscete perchè giustamente alla televisione non lo chiamano mai – e d’altronde perchè mai dare un microfono a uno che poi se ne serve per sputtanarvi? – e i politici lo cercano ancor meno (i politici di sinistra, in Sicilia, sono affaccendati a “rinnovarsi” al seguito di uno che ha difeso i baroni massoni di Messina).
In questi vent’anni, è stato di gran lunga il più serio e il più efficiente intellettuale italiano impegnato nella lotta contro la mafia. Su questo argomento ha elaborato studi che sono stati adottati nelle università americane. Ma ha avuto soprattutto il cuore di cercar giustizia, di far casino, di tenere duro per: pausa – vent’anni. Vent’anni durante cui gli altri hanno fatto carriera, hanno venduto il culo, hanno messo all’asta padre e madre, pur di ritrovarsi alla fine lì, seri e pensosi a Porta a Porta o alla Sette a declamare profondi pensamenti sui massimi problemi del mondo.

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Cuore. Ieri mattina Rutelli si bisticciò con Berti, uno dei più piccoli, figliuolo d’un lavoratore dipendente sindacalizzato, e non sapendo più che rispondergli gli disse forte: – Tuo padre è un communista. – Berti arrossì fino ai capelli, e non disse nulla, ma gli vennero le lacrime agli occhi, e tornato a casa ripetè la parola a suo padre; ed ecco il lavoratore, un piccolo uomo tutto nero, che compare alla lezione del dopopranzo col ragazzo per mano, a fare le lagnanze al maestro.
Mentre faceva le sue lagnanze al maestro, e tutti tacevano, il padre di Rutelli, sulla soglia dell’uscio, udendo pronunciare il suo nome, entrò, e domandò spiegazione.
– È lui, – rispose il maestro, – che è venuto a lagnarsi perchè il suo figliuolo Carlo disse al suo ragazzo: Tuo padre è un communista.
Il padre di Rutelli corrugò la fronte e arrossì leggermente. Poi domandò al figliuolo: – Hai detto quella parola?
Il figliuolo – ritto in mezzo alla scuola, col capo basso – non rispose.
Allora il padre lo prese per un braccio e lo spinse più avanti in faccia a Berti, che quasi si toccavano, e gli disse: – Domandagli scusa. Ripeti le mie parole. Io ti domando scusa della parola ingiuriosa, insensata, ignobile che dissi contro tuo padre, al quale il mio si tiene onorato di stringere la mano.
Il sindacalista fece un gesto risoluto, come a dire: Non voglio. Il manager non gli diè retta, e il suo figliuolo disse lentamente, con un fil di voce, senza alzar gli occhi da terra: – Io ti domando scusa… della parola ingiuriosa… insensata… ignobile, che dissi contro tuo padre, al quale il mio… si tiene onorato di stringer la mano.
Allora il manager porse la mano al communista, il quale gliela strinse con forza, e poi subito con una spinta gettò il suo ragazzo fra le braccia dell’altro.
– Mi faccia il favore di metterli vicini, – disse il manager al maestro. – Il maestro mise Berti nel banco di Rutelli. Quando furono al posto, il padre di Rutelli fece un saluto ed uscì.
– Ricordatevi bene di quel che avete visto, ragazzi, – disse il maestro, – questa è la più bella lezione dell’anno.

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Cassazione. Ancora una sentenza della Corte di Carnevale. Il coniuge tradito può insultare (in caso di flagranza) la persona con cui la consorte consuma l’eventuale relazione adulterina. Finora l’unico legalmente insultabile era il coniuge “traditore”. In Italia fino a pochi decenni fa il marito tradito aveva il diritto di far fuori senz’altro moglie e rivale senza fare più di un anno di galera, grazie al gioco di attenuanti che scattavano per la “legittima reazione dell’onore tradito”.

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Estate. Si annuncia minacciosamente in Sicilia, sempre più tropicale. In qualche paese ci sono già state le consuete proteste per la mancanza d’acqua. Nella principale diga siciliana (l’Ancipa) intanto parecchi milioni di metri cubi d”acqua sono stati scaricati in mare e non distribuiti a città e campagne per un errore tecnico: una valvola (dal costo di circa dieci euri) non ha funzionato.
La speculazione sull’acqua da irrigazione, fino ai tardi anni settanta, è stata uno dei business della mafia nelle province della Sicilia occidentale: era proibito costruire nuove dighe per non mettere in pericolo il monopolio dei mafiosi, e il giornalista Mario Francese – ad esempio – fu assassinato proprio per aver denunciato le vere cause dei ritardi nella costruzione della diga Garcia.
In grandi città come Catania (che sta ai piedi di una montagna innevata, e dunque ai piedi di una riserva idrica praticamente inesauribile) invece il problema non sono le dighe ma gli acquedotti, appaltati tradizionalmente ad imprenditori non esattamente nemici dei mafiosi; uno dei primi atti dell”ex ministro Bianco, come Sindaco, fu quello di affidare la manutenzione del canale a uno dei “cavalieri dell’apocalisse”, Graci. La maggior parte dell’acqua si perde attraverso i buchi nel canale.

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E due. Il Venezuela – al lato opposto del continente rispetto all’Argentina – è il secondo paese dell’America Latina che i libri di storia citeranno quando si parlerà di economia globale del duemila. È un paese ricchissimo, come l’Argentina; anzi di più, visto che è uno dei massimi produttori di petrolio del mondo. La maggior parte della popolazione, tuttavia, vive a un livello di poco superiore a quello della fame. Strana situazione.
In Argentina, le strutture statali sono semplicemente collassate (in alcune regioni si è tornati al baratto) sotto il peso delle “compatibilità” del Fondo monetario internazionale. In Venezuela, invece, era salito al potere uno strano tipo di militare, un ufficiale dei parà con la mania della politica, logorroico e un po’ cialtrone. Nonostante il suo aspetto folkloristico (e forse proprio per quello) l’avevano votato in massa. E nonostante l’aspetto folkloristico aveva cominciato ad applicare una classica politica keynesiana (spesa pubblica e servizi sociali come volano della domanda) abbastanza lontana dalla politica amichevolmente consigliata del Fondo. Due anni fa propose che tutta l’Opec riducesse la produzione di petrolio, e quando gli americani protestarono, rispose “Il Venezuela è un Paese sovrano. Ha il diritto di prendere decisioni nel proprio interesse”.
Alla fine gli hanno fatto un golpe e l’hanno cacciato via. La cosa più carina è che al governo, col golpe, non ci è andato il classico colonnello fazendero o il politico amico degli industriali, ma proprio il presidente della Confindustria in persona, senza mediazioni. Beh, non fateglielo sapere a D’Amato.

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America. Inventati e messi in commercio gli spaghetti in scatola. Credevo l’avessero già fatto. Comunque, loro li usano come merenda.

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Cronaca. Palermo. Lotte clandestine all’ultimo sangue fra cani, rinchiusi in un recinto, con scommesse organizzate da mafiosi. Un’indagine degli animalisti siciliani, con immagini raccolte fra mille pericoli e difficoltà.
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Cronaca. Resana (Treviso). Vietato agli zingari l’accesso al territorio comunale. Il provvedimento è stato preso per iniziativa comune del comune e degli imprenditori locali.

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Cronaca. Torino. Una ragazza di quindici anni – ha accertato il tribunale dei minori – veniva tenuta dalla famiglia isolata del mondo. Le assistenti sociali sono riuscite a farsi comprendere da lei solo parlando in dialetto.

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Cronaca. Messina. Insospettiti dai rumori, i carabinieri hanno controllato quel che succedeva, all’una di notte, dentro un negozio di abbigliamenti in via Cannnizzaro. Tutto tranquillo: solo una mezza dozzina di manichini. Ma a un certo punto uno dei manichini ha starnutito…

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Persone. Amos Luzzato, presidente Unione delle Comunità Israelitiche italiane: “Vorrei vedere l’unione di tre parlamenti: quello europeo, quello italiano, quello palestinese”.

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Sono arrivate molte lettere, per lo più civili. Queste due (ma anche la maggior parte delle altre) sono di persone buone e ragionevoli, attente a non odiare indiscriminatamente il “nemico”, a fare distinzioni. Ma non s’incontrano e – come sta andando adesso – si allontanano sempre più.
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Marco, da Roma, wrote:
< Ma quali trattati di pace ha rifiutato Israele? Nel ’47 sono stati proposti dalle NU due stati: quello israeliano e quello palestinese, contiguo ad esso, con parte di gerusalemme. I palestinesi rifiutarono l’offerta, convinti che avrebbero vinto la guerra, e che dunque non avrebbero diviso la palestina con nessuno. Così non accadde. Israele vinse una guerra con 5 stati che messi insieme facevano oltre 50 l’estensione dello stato ebraico. Questo primo, evidente sbaglio del popolo palestinese viene contato poco, ma mi sembra fondamentale per giudicare la situazione odierna: la Palestina non esiste perchè hanno rifiutato di costruirla.
Due anni fa Arafat ha rifiutato un offerta di territori pari all’88. Arafat è colui che ha fatto fallire il faticoso processo di pace. Oggi non è un leader affidabile, poichè il popolo non è con lui, non ha saputo imporre il suo pensiero pacifista.
Oggi mi è arrivato via email un documento sconcertante: la traduzione (realizzata da un istituto internazionale) dei libri di testo che i bambini palestinesi usano a scuola. La poesie inneggiano all’odio agli ebrei, al martirio come cosa positiva in nome di Allah, alla morte come valore da coltivare. Ma andiamo! Voi di Clarence in genere non avete peli sulla lingua: e ditelo che sono dei barbari! Che queste cose sono barbare! Che i kamikaze esistono poichè c’è una cultura che li permette. La stessa ricerca, effettuata sui libri di testo israeliani, ha trovato un equilibrio notevole. Solo il 10% dei testi israeliani, quelli usati nelle scuole ortodosse, sono spudoratamente antipalestinesi.
Scusa la lunghezza, ma il tuo pezzo mi pareva generico. Un po’ buttato lì. Sono, per chiariere la mia posizione, contro Sharon, e contro la posizione degli ebrei romani (di cui faccio parte): non sono andato alle manifestazioni filo-nessuno dei due, perchè ritengo che solo una manifestazione filo-pace sia giusta. La violenze di questo periodo hanno un nome: Sharon. per il resto, i palestinesi hanno condotto una politica pessima negli anni, educano con valori fuori dal mondo la loro gioventù, e purtroppo, a mio avviso, sono un popolo in cerca d’identità più che di terra. (anche se ovviamente è giustissimo che l’abbiano.). Ciao e scusa la logorrea. Marco >
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Renata, da Napoli, wrote:
< Per lo più siamo donne, entriamo nei vagoni delle metropolitane, delle funicolari, dei trenini, in silenzio e ci disponiamo in punti differenti. Quando il mezzo si muove facciamo partire un tamburo oppure un violino, poi una di noi incomincia a leggere. Una testimonianza diretta di quanto sta accadendo in Palestina, un bollettino, una presa di posizione. Poche righe. Per la prossima fermata di solito non ci sono più di un paio di minuti. Appena è finita la lettura della testimonianza, da un altro punto del vagone si alza una voce che ricorda che quanto è stato appena letto è reale, che sta accadendo ORA. Poi diamo volantini per invitare al boicottaggio dei prodotti israeliani e alla pressione sui governi europei per sospendere gli accordi commerciali col governo Sharon. Le reazioni sono a volte d’indifferenza, a volte di fastidio; a volte, ma più raramente, un applauso solitario, qualcuno che dice che facciamo bene, che ci voleva. Certo è che tutti leggono il volantino e stranamente non lo buttano via.
Dobbiamo continuare a farlo per molto tempo. Diventare un appuntamento fisso nei mezzi pubblici della città, almeno finchè qualche controllore non deciderà di buttarci fuori. Vogliamo stimolare il dibattito tra le persone, dare qualche tassello di verità. Laggiù hanno allontanato i giornalisti, i soccorritori, gli osservatori internazionali per rifare la storia a modo loro.
Il boicottaggio dei prodotti può funzionare. Già nell’India di Gandhi e nel Sudafrica dell’apartheid ha funzionato. Può essere fatto da tutti, anche da chi non va in piazza. Equidistanti? Non è possibile, ora: da una parte uno stato con un esercito e dall’altra un popolo stremato e disperato. Noi prendiamo posizione. Siamo dalla parte dei palestinesi: ma come siamo dalla parte degli israeliani che si oppongono all’occupazione. E siamo dalla parte di quegli ebrei israeliani che per primi, un anno fa, hanno lanciato questa campagna di boicottaggio che ora noi riprendiamo. >

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Simonide<smnds@eleutheros.el> wrote:

< Poco è in potere degli uomini, molti sono i mali
e un peso dopo l’altro ci getta addosso la vita.
Morte sta lì per tutti, i coraggiosi e i vili >