San Libero – 390

Questo significa perdere sicuramente le elezioni. Ci sarà un berlusconismo “moderato” che durerà altri vent’anni. Recuperare in fretta, mettere in piedi un minimo di unità?  Non ce la facciamo, siamo troppo divisi e non ci sono i tempi per compattare alcunchè. I vecchi del Pd (faticosamente neutralizzati in questi mesi) d’altronde in queste  ore stanno già trattando con Tremonti, scavalcando la loro base e vendicandosi di Bersani

C’è solo una via d’uscita: aprire subito e tutti insieme la campagna elettorale, con una candidatura unitaria e fortissima, che obblighi tutto il centrosinistra a compattarsi e che costringa i cosiddetti “moderati” a schierarsi pro o contro.
Una candidatura contro i poteri mafiosi, prima di tutto: perché là s’è ormai risiede, a Milano come a Napoli e a Palermo, la forza del berlusconismo di Salò.

Ci vuole un magistrato. Avevamo proposto, quest’estate, una candidatura autorevolissima: Gian Gianc Carlo Caselli. A parte la sua ritrosia – ma se il paese chiamasse, sarebbe suo dovere obbedire – non è stata raccolta da nessuno. Ora però candidature analoghe – ad esempio Libero Mancuso a Napoli, cioè l’antiP2 contro la P2 – cominciano ad avere qualche riscontro (Flores D’Arcais, per esempio).

Ma il tempo vola, non bastano i riscontri occasionali. Bisogna che nei prossimi giorni scatti un’operazione politica corale, di vera unità nazionale, di Cln. Basta con le divisioni. Vogliamo un candidato unico, un candidato forte e unitario, un Magistrato. Diciamo Caselli per dire questo, come – in momenti analoghi – avremmo detto Pertini.

E’ un nome altissimo – sia chiaro – ma è solo un nome. L’importante è che un nome ci sia, e che sia un Magistrato. Comunisti, socialisti, cattolici, repubblicani, azionisti: ora, “nell’ora tragica della Patria”, la Resistenza è una sola.

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Wikileaks e il panico del Sistema
La vera notizia è la reazione alle “rivelazioni”

Non è che poi Wikileaks abbia fatto ‘ste gran rivelazioni. Le cose che sono uscite più o meno si sapevano già prima: certo, a vederle tutte  insieme il panorama è molto più desolante che a leggerle una per una: politici bestie, bombardamenti casuali, governi semimafiosi, guerre fatte per soldi e compìti diplomatici che ruttano fragorosamente ai pranzi ufficiali. E allora? Perché s’incazzano tanto?

Perché il senso di panico, a sentirsi sbattere le cose in faccia senza poterci far niente, ha fatto letteralmente impazzire tutti quanti. “L’ha detto la televisione”, diceva una volta la gente, e quella la puoi controllare. Ma ora: “L’ha detto internet!”. E qua, con tutto il potere, non ci puoi far niente.

La vera notizia allora è questa: il panico da ancient régime che ha travolto selvaggiamente tutti, dal non-occidentale Putin all’occidentalissima Clinton.

“Arrestatelo!”, “Minaccia il mondo!”, “Pena di morte!”, “Fatelo fuori alla svelta!”. Non sono i talebani a gridarlo o i mandarini cinesi, ma proprio i nostri civilissimi e acculturati parlamentari e ministri. La Svizzera, a un certo punto, ha addirittura sospeso i conti del povero Asange: non l’aveva fatto con Hitler, non lo fa coi mafiosi – lo fa con Wikileaks, cioè con internet, che evidentemente gli fa molta più paura.

Con il che, è detto tutto: se i banchieri svizzeri, cioè il cuore del cuore del – chiamiamolo così – Sistema hanno rinnegato se stessi, figuriamoci gli altri.

Il diritto di cronaca ufficialmente non esiste più e il giornalismo è fuorilegge. Non solo in Iran o in Cina ma proprio qui da noi, in America e Europa. E la libertà? E il liberismo? E chi se ne fotte.
Zoom sulla Sicilia, a Catania e Palermo, dove era già così da trent’anni (le inchieste su Ciancio indicano solo la cattiva coscienza in tempi complicati del Palazzo, non certo una qualunque voglia di cambiare): c’è democrazia in Sicilia? si può fare cronaca? si può parlare liberamente?

Va bene, non si può, rispondevamo fino a poco tempo fa: ma a Milano, ma a Roma, ma a Washington… Ecco: la novità è che si vanno catanesizzando Roma Milano e Washington, vanno abolendo l’informazione.

O almeno, questa sarebbe l’intenzione. Ma in realtà la gente è molto meno malleabile di prima, non perché più colta o più civile (anzi) ma perché ha a disposizione tecnologie che prima non aveva. Puoi impiccare Asange, ma internet chi lo impicca?

Tanti piccoli Asange (ma no, non personalizziamo: nell’internet non si usa) spunteranno, e in effetti già spuntano, dappertutto. E’ la stessa tecnologia che li produce: dopo Gutenberg era solo questione di tempo perché venissero fuori tanti Luteri.

Va bene, lavoriamo per questo. Tranquillamente perché tanto il trend è questo e non c’è nessuna ragione di eccitarsi. Stampa batte amanuense, borghese batte vescono, Rete batte Sistema: prima o poi.

Pensare globalmente, agire localmente: è tornata ad uscire la Periferica e questa, nel nostro piccolo, è una delle tipiche buone notizie. Sta funzionando male la connessione Sicilia-Bologna e la Catania-Ragusa: questi, nel nostro piccolo, sono i nostri guai. E lavoriamo da gnomi, da formichine, senza una lira ma cantando allegramente come i Sette Nani, perché sappiamo benissimo che sono guai risolvibili mentre le buone notizie sono semi di alberi grandi, il cui frusciare, se tendete le orecchie, lo sentite già.

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E’ buffa la politica, sempre la stessa: liberali e borboni si contrastano, dentro e fuori il Circolo dei Civili, mentre in campagna e sui lontani monti i contadini…
Due mondi lontanissimi, qualche volta s’incrociano, ma sfuggenti. E come si chiamano i contadini oggigiorno? Ricercatori disoccupati? Precari? Ragazze che in mancanza di meglio fanno il concorso per velina? Metalmeccanici? Tutti questi, e altri ancora. Nell’ottocento, del resto, non c’era solo l’Operaio Sfruttato: c’era anche il Coolie, il Professore, il Marinaio, l’Impiegatuccio, la Fioraia… E’ complicato il mondo, ma lo era già prima.

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Dopo più di vent’anni finalmente indagato Mario Ciancio
(1 dicembre 2010)

“Concorso esterno in associazione mafiosa” è l’intestatazione del fascicolo intestato dalla Procura
di Catania all’imprenditore Mario Ciancio. Da decenni al centro delle inchieste dei pochi giornalisti liberi della città, l’editore catanese – a lungo presidente degli editori italiani – era diventato uno degli uomini più potenti non solo della Sicilia ma di tutto un sottobosco italiano politico-imprenditoriale. Ai suoi piedi intellettuali e politici, mafiosi e principi del foro: vent’anni di servilismo, connivenza e omertà

Dopo più di vent’anni, finalmente alla  Procura di Catania si accorgono che esiste un Mario Ciancio. Lo indagano, a quanto pare, per uno dei tanti centri commerciali; si parla di concorso per associazione mafiosa,  ma alcuni sembrano anche  orientati (se non cambieranno idea) a indagare sul terrificante episodio dell’editoriale di Vincenzo Santapaola, pubblicato su La Sicilia sotto forma di lettera al giornale.

Vent’anni di articoli sui Siciliani, sui Siciliani nuovi, su Avvenimenti, sull’Isola Possibile, su Ucuntu e infine da qualche mese anche su altri giornali son dunque infine serviti a qualcosa? Riusciremo a vedere, nei prossimi vent’anni, non solo le  prime indagini ma anche un po’ di giustizia?
Forse il clima politico, di si-salvi-chi-può e di sfacelo generale, potrebbe aiutare a vincere tante annose timidezze. Forse – poiché nulla è impossibile – una genuina volontà di giustizia s’intrufola persino nei palazzi tradizionalmente più lontani da essa, come – a Catania – quello di Giustizia. Chi lo sa.  In ogni caso, a caval donato non si guarda in bocca.

Descrivere tutte le imprese – in senso imprenditoriale e no – di Ciancio, i sui incontri e rapporti con mafiosi di vario genere, i suoi intrecci politici, i suoi interessati sostegni, di volta in volta, a tutti i politici catanesi – da Andò a Drago, da Bianco a Scapagnini – sarebbe troppo lungo per queste pagine; del resto l’abbiamo già scritto in tante pagine che chi ne ha voglia può rileggersele in santa pace.

Per ora, vogliamo solo sottolineare l’estremo servilismo con cui il ceto intellettuale e politico di questa città si è prestato a fargli da corte e a difenderlo in ogni occasione, dall’elegante “fascista” Buttafuoco al feroce “compagno” Barcellona. Una vergogna che sarà difficile cancellare.

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Il Patto
(novembre 2010)
Brescia: espulsi i capi operai, liberi e trionfanti gli stragisti. Viviamo in un Paese così. La piccola politica non basta

“Andreotti Giulio, anni dieci. Berlusconi Silvio, anni otto. Cuffaro Salvatore detto Totò, anni sette. Lombardo Raffaele, anni due e mesi sei…”.
No, non è quello che stavate pensando. E’ semplicemente il numero degli anni in cui la Repubblica Italiana e la Regione Siciliana sono state governate da politici ufficialmente e giudiziariamente in contatto con mafiosi. Per un terzo della nostra  storia civile, quindi, siamo stati comandati da gente che s’intendeva coi mafiosi. Questo è il Patto.

Il Patto non esclude patti minori – anzi, li esalta – ma non coincide con essi. Questi ultimi possono essere considerati delle patologie del sistema, ma il Patto è una fisiologia.
Uccidere Falcone, ad esempio, può essere stata una scelta eccezionale, una patologia. Ma se ciò è stato fatto per  impedirgli di portare Badalamenti (tramite Buscetta) a rivelare gli incontri Cosa Nostra-Governo – rivelazioni che ora sono agli atti della Storia ma vent’anni fa avrebbero rivoluzionato il Paese – uccidere Falcone allora non sarebbe più una decisione occasionale, un caso estremo, ma una componente fisiologica, necessitata, del Patto. Lo stesso per Borsellino, ucciso dalla mafia ma non per essa.

Il Patto, agli albori della Repubblica, consiste in questo: l’Italia è un paese civile, con libere elezioni, ma fino a un certo punto. Mezza Italia resta pre-repubblicana, feudo senza diritti del grande latifondo. L’altra metà è repubblica, ma con un confine preciso: in nessun caso può andare al governo il partito dei lavoratori dipendenti, che per ragioni storiche si chiamava comunista.
Entro questi binari, la vita della repubblica andava avanti tranquilla. Un nord corporativo e democratico, e tutto sommato europeo, in cui lo Stato finanziava gli imprenditori e questi garantivano la piena occupazione. Un sud largamente autonomo ma non ribelle, in cui i grandi proprietari terrieri si evolvevano in “imprenditori” e i loro armati in moderni mafiosi. Due insiemi collegati dalla Dc e dall’emigrazione.

Nei momenti di crisi (l’occupazione delle terre, l’autunno caldo) s’interveniva con mezzi forti: Portella delle Ginestre, Piazza Fontana. Ma erano casi estremi. A poco a poco la crisi rientrava (i contadini emigravano, gli operai accettavano la ristrutturazione industriale) e tutto tornava nella normalità. Che era una normalità italiana, legata al Patto.

* * *

Il nostro – sto parlando del Sud: ma ormai arriva a Milano – è un Paese antichissimo, molto più antico della politica. Da noi la destra non è quella parte del parlamento che siede alla destra dell’onorevole speaker, è proprio il padrone feroce, nato sulla zolla; e la sinistra non è un club di gentlemen riformisti, è generazioni infinite di contadini. La paura, la fame, muovevano reciprocamente i due mondi.

Certo: poi venne De Gasperi, venne Togliatti; ci siamo inciviliti parecchio, nei nostri anni belli, prima di diventare quel che siamo. Ma l’imprinting è quello: una lotta di classe a volte umanamente “politica”, altre volte feroce. In altri Paesi simili (la Grecia del dopo-guerra, la Spagna di Franco) questa lotta di classe fu risolta con stragi di centinaia di migliaia di cittadini. In Italia col Patto.

* * *

A Brescia, il mese scorso, sono accadute – per singolare coincidenza, quasi insieme – due cose che ci ricordano cos’è stato in pratica, e cosa ancora è ogni volta che gli si lascia via libera – la gestione del potere in questo paese. Sono stati esiliati d’autorità, con un ottocentesco foglio di polizia, i capi di una pacifica manifestazione di operai; ché  tali erano i senegalesi della gru, prima ancora che forestieri o immigrati: operai.

Ed è stata definitivamente dichiarata impunita la strage del maggio ’74 di Brescia, di trentasei anni fa. Otto italiani ammazzati, feriti più di cento: la giustizia, impotente, alza le braccia.
Perseguitati gli operai, liberi e trionfanti gli stragisti: questo è lo stato del mio Paese nell’anno di grazia 2010. Non  sarà la politica piccola a sollevarlo.

Maroni, spingendo Tremonti, tradisce Berlusconi in proprio o per conto di Bossi? Chi ha spinto la Carfagna a quest’ultima storia di Bocchino? Lombardo è più o meno mafioso di Cuffaro?
E che ce ne frega. Pensiamo alla politica seria, almeno noi. Cacciare Berlusconi, deridere i suoi cortigiani, sberlursconizzare  la sinistra: vi pare un programma da niente?

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Lorenzo Marsili wrote:

< Quando sono arrivato ho visto bandiere, migliaia di bandiere tutte quante del PD o dei giovani democratici. Ho 13 anni, era la mia prima manifestazione nazionale, non avevo mai visto una cosa simile, quindi andai nella sezione del corteo dei Giovani Democratici dove erano tutti felici, saltellanti di gioia a ritmo dei Modena City Ramblers. C’era la Bandao: Una banda musicale di percussioni. Davanti un camion che suonava musica e tutti i ragazzi servizi d’ordine dei giovani democratici lo circondavano. Ci passai accanto, un ragazzo mi disse; “ciao, scusa mi reggi il cordone per un attimo?” lo presi. E l’ho tenuto per tutto le due ore e mezzo del corteo; il ragazzo non tornò piu’.

Come servizio d’ordine avevo accesso a tutto, quindi potevo stare all’interno del cordone che circondava la Banda e il camion distribuivo bandiere alla gente e aste al cordone, mi divertiva fare parte di un organizzazione, essere coinvolto e non ostante l’età essere considerato importante.

Arrivati a Piazza san Giovanni ascoltai il discorso di Bersani dal backstage e concordo con lui: l’Italia sta cadendo a pezzi, cominciando dal distacco di nord e sud, i tagli ai fondi per l’istruzione, il servizio pubblico e l’immigrazione. quello mi ha colpito del discorso di Bersani era la parte in cui diceva che vuole un Italia dove, se si incontra un immigrato o uno straniero per strada possiamo dirgli che è uno di noi. È per questo che sono andato in manifestazione, perché questa Italia che sta cadendo a pezzi va ricucita e va resa piu’ forte che mai: un insieme di etnie, popoli che convivono in pace, io credo che crede che l’Italia anche se in perdita va resa forte:

Per un’Italia unita! >

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Nostra Libertà

La nostra è una Città in cui si lavora:
a comandare, è il popolo e la Legge.
Ciascuno di noi tutti ha dei diritti,
quand’è insieme con altri, e quando è solo;
ciascuno di noi tutti ha dei doveri.

Nella Città non c’è uomo nè donna,
miscredente o fedele, bianco o nero.
I cittadini sono uguali. Tutti
vivano nella loro dignità,
nè miseri, nè troppo ricchi: a ognuno
fraterna dia il suo aiuto la Città.

Chi pensa, chi produce, chi lavora,
ognuno dia una mano alla Città:
lei vuole che nessun rimanga fuori
per la pigrizia o per la povertà.

È una la Città, ma il cittadino
è diverso un dall’altro, al suo paese,
nel suo nord, nel suo sud, nel suo dialetto:
la Città non ci vuole fatti a schiera.

Legge di dei non è legge civile:
qui, ciascuno rispetti il dio d’altrui.

I boschi, l’aria libera, i poeti,
i maestri che insegnano, il sapere
sono il nostro tesoro: la Città
per tutti loro è vita e libertà.

Non barbari, ma uomini civili
noi rispettiamo ogni altra città.
Ma chi fugge dai barbari, qui trovi
casa fraterna, asilo e carità:
guai a chi lo scaccia! Offende tutti noi.

Non sia guerra fra umani, uomini!, mai.
Ragionate piuttosto: noi vogliamo
essere i primi a ragionare, e andiamo
nel mondo in amicizia e libertà.

Nei giorni duri, abbiamo una bandiera
che ci ricorda: siamo una Città.
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