San Libero – 313

12 dicembre 2005 n. 313

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Non sapendo cosa mettere al posto dello stemma “comunista” tagliato via dalla bandiera, i cittadini rumeni alla fine si rassegnarono a non metterci niente; e per un po’ se ne andarono in giro con un bel buco tondo nel tricolore. Ma che cosa c’era di così communista in quello stemma, al punto di scambiarlo con un buco che, persino in Romania (non diciamo in Italia) non significa niente?

Beh. C’era una stellina rossa piccola piccola, da guardarla con la lente d’ingrandimento. Non c’era una falcemmartello manco a pagarla oro (“noi siamo una repubblica popolare, mica un soviet”). Non c’era neanche un sol dell’avvenire, un pugno chiuso, niente. C’erano invece: fabbriche, dighe, tralicci, autostrade, elettrodotti… la modernità insomma. Quella che da popolo di pecorai affamati ti trasforma in gente moderna e postmoderna come Dio ccmanda. (Avete mai visto qualche film bianco/nero anni Cinquanta? O magari le foto del matrimonio di vostro nonno, colla prima giaccaecravatta della sua vita? Ecco).

Insomma, il “comunismo” (secondo il mio modo di vedere) nella maggior parte dei casi è stato semplicemente un tentativo (forzato; e alla fine riuscito) di portare la modernità a chi non l’aveva. Cosa lodevole, si capisce. Ma, come dicevano gli antichi, c’è modo e modo. Una bella modernità è quando, con qualcosa dentro il frigorifero e un bel film alla televisione, te ne stai spaparanzato lì, con luce elettrica, cesso con regolare sciacquone, bambini che vanno a scuola e tutto. Una modernità fastidiosa è invece quando ti devi sorbire, con tutti questi bellissimi altoparlanti moderni, le ultime grandi imprese del Compagno Ceaucescu e ti devi fare persuaso, o vuoi o non vuoi, che senza il Grande Compagno non potresti campare. Una modernità un po’ meno fastidiosa, ma sempre molto lontana da quella in cui ci sarebbe piaciuto stare, è quando non è il Grande Compagno quello senza del quale non puoi campare ma l’ultimo modello Tim-Motorola: magari a uno piacerebbe, le cose e i compagni suoi, sceglierseli da sè.

I capi “comunisti”, nelle foto d’archivio della Moderna Romania,. avevano due atteggiamenti interscambiabili, e questi due soli. O erano fermi e solenni in qualche celebrazione o meditazione, un po’ come Papa Ratzinger o Tronchetti-Provera intervistato dal tiggìdue. O, all’esatto contrario, erano colti di fretta mentre andavano da qualche altra parte. La Modernità, infatti, ha sempre fretta. La Modernità non ha mai tempo. La Modernità preferisce un treno costoso e scomodo, ma che arriva prima, al trenino scombiccherato e pacifico in cui, qualche eone fa, potevi anche garbatamente corteggiare la studentessa pendolare che sarebbe salita due fermate dopo la tua. (Queste fermate sono state adesso abolite tutte, appunto per risparmiare tempo).

Ovviamente, come sempre succede quando uno comanda e tutti gli altri sono a ubbidire, c’era anche dell’interesse: i rubinetti d’oro, le ville di Ceaucescu, la moglie di Lunardi e tutto il resto. La carne è debole. Ma al di là delle singole ruberie quel che faceva il sistema, e lo auto-autorizzava ad essere feroce “per il loro bene”, era sempre questo: la Modernità, la Fretta. Termini coincidenti, se ci pensate bene, e la cui coincidenza probabilmente spiega molte cose.

Vabbene, s’è visto com’è finita. Dapprima con tutto il buco nella bandiera, e poi con una bandiera più modaiola, con stemmi trendly e non più paleoindustriali, i rumeni – come tutto il resto del mondo – hanno cambiato ideologia e religione ma non “modernità”: quella anzi è aumentata. E’ vero che hanno levato dighe e tralicci dall’emblema e che hanno nominato manager i vecchi dirigenti “comunisti”: ma in compenso hanno mandato i bambini poveri a vivere nelle fogne (che è una delle cose più moderne che ci siano: vedi Dickens). In Cina, lasciando stelle e martelli, e dichiarandosi sempre categoricamente comunisti, han fatto la stessa cosa ma molto più in grande: gli è andata benissimo, salvo ogni tanto dover sparare addosso alla gente restia a farsi modernizzare.

E da noi in Italia? Ah, qua da noi è tutto diverso. La classe dirigente non è ossessionata dalla fretta, si prende i suoi tempi, riflette. I treni, pulitissimi e dignitosi, non superano una certa velocità per dare ai viaggiatori il tempo di leggersi un buon libro. Soltanto in Valdisusa i valligiani, montanari egoisti, protestano: “No! Vogliamo correre! Abbiamo fretta!”. E il governo, a puro scopo educativo e certo senza personalmente guadagnarci niente, li rieduca a mazzate in testa, “à la Ceaucescu”.

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Generazioni. Questa è la terza generazione del movimento antimafioso. La prima, a metà Ottanta, era “il partito di Falcone e dei ragazzini”. La seconda, primi anni Novanta, fu quella che poi confluì nella Rete. Questa terza, che andava crescendo – per chi voleva vederla – da quasi due anni, si aggrega attorno all’associazionismo “apartitico”, in particolare Libera e l’Arci. Rispetto alle prime due, è cresciuta meno nel dramma e più nel lavoro quotidiano. Il suo capolavoro non è una fiaccolata o un corteo ma la paziente, e vincente, opera per la gestione sociale dei beni sequestrati ai mafiosi. A poco a poco, con cifre piccole ma via via sempre più consistenti, ha tradotto in realtà visibile la grande intuizione degli anni Ottanta (“I Siciliani”, il Centro Impastato) secondo cui il sistema mafioso, meccanismo non eversivo ma di classe e di potere, si batteva essenzialmente con la mobilitazione sociale. E questo, essenzialmente, è il filo di tutti questi vent’anni.

Sia i “vecchi” che il nuovo movimento antimafioso sono cresciuti essenzialmente fuori dai partiti. All’inizio era ancora fortissimo (la prima manifestazione per dalla Chiesa partì dalla Fgci di Palermo) il peso della tradizione comunista, che però non coincideva esattamente con quella del partito nazionale (Licausi e Togliatti non erano la stessa cosa); la “politica” e il “partito” furono assunti dunque nei loro aspetti migliori, abbastanza marginali rispetto alle tendenze “modernizzatrici” del resto della sinistra italiana.

La Rete fu un partito, sì, ma alle origini non voleva esserlo affatto: piuttosto una specie di confederazione fra tante realtà di base, espressioni spontanee della “società civile”, con una forte partecipazione di cattolici (che proprio in quel momento cambiò il baricentro della politica italiana). Di solito, quando si parla – fra “vecchi” – della Rete, la nostalgia riguarda quel momento fondante, e non l’infelice esperienza del vero e proprio partito, travolto da innocenti (ma pestifere) ambizioni personali e da un ingenuo desiderio di farsi “riconoscere” a tutti i costi dalla politica ufficiale. Alla fine, coi leader in lite per le candidature e i militanti ormai privi di timone, proprio a Palermo il candidato della destra (un vecchio arnese dell’estremismo fascista, Lo Porto) battè pesantemente il candidato della Rete, l’anziano e rispettatissimo giudice Caponetto. La crisi era morale, e profonda; e non riguardava tanto i politici quanto il rattrappirsi civile della popolazione. La Rete tuttavia, e il movimento antimafioso di cui essa era in gran parte rappresentante, non s’era attrezzata nè politicamente nè culturalmente ad attraversare questo riflusso. E collassò.

La fine della Rete (il nuovo Ds non essendo neanche lontanamente all’altezza dei vecchi “communisti”) lasciò campo aperto al tipico riflusso ciclico della storia siciliana. Fallito Garibaldi (o Spartaco, o Giuseppe Alessi, o Licausi, o Orlando) l’ordine torna indiscusso e più feroce di prima. Pochi resistono, molti si chiudono nel privato, e la massa dei “sorci” torna a galla. Tale è la folla dei postulanti davanti al palazzo del nuovo vicerè, Cuffaro, che a un certo punto costui è costretto a dileguarsi attraverso l’antico sotterraneo costruito, nel palazzo reale, dai vecchi vicerè spagnoli. Resistono, nelle città e nei paesi, gruppi isolati di militanti. Resistono, apparentemente, più per dignità e per morale che per realismo. Eppure, anche questo sarebbe stato giustificato: il movimento antimafioso, cioè per la redistribuzione dei poteri in Sicilia, aveva toccato corde tanto profonde, aveva lanciato – con tutti i suoi limiti – un messaggio talmente radicale, da rendere assolutamente impossibile cancellarlo del tutto. Alla sua cancellazione dalla vita pubblica (per opera della destra, ma con la complicità di quasi tutta la sinistra ufficiale) corrispondeva anzi un suo più doloroso radicamento nella coscienza individuale.

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La crisi Borsellino, adesso, è stata rapidissima. La destra andava verso una  svelta e indiscussa vittoria elettorale, con l’unica incertezza sulla ripartizione dei posti fra destri puri (Cuffaro), destri frondisti (Lombardo)  e centristi da acquisire in corso d’opera (Bianco), e si adoperava anzi per anticipare il più possibile la data delle elezioni. La sinistra ufficiale, reduce da sconfitte elettorali una più disastrosa dell’altra, proponeva affannosamente improbabili candidature di notabili, presentatori tv, industriali dei liquori e chi più ne ha chi ne metta: buio fitto. Improvvisamente, prima dall’Arci e da Libera e poi ripresa dal “pool” dei piccoli partiti, spunta la parola d’ordine: “Borsellino!”. E altrettanto improvvisamente torna il sole. I militanti si mobilitano, la gente ricomincia a parlare di politica, la destra comincia a sollevare eccezioni sulle regole del gioco. Quella che sembrava una pacifica elezione di provincia diventa improvvisamente una scadenza politicca minacciosa e centrale, un caso Vendola moltiplicato per dieci.

Miracolosamente (o forse no: poiché nel Dna della nostra sinistra c’è anche questo sapersi sollevare al di sopra delle proprie miserie nei momenti cruciali) i leader tradizionali della sinistra, dapprima impappinati e confusi, stanno al gioco; i vari notabili fanno atto di sottomissione uno dopo l’altro. In questa fase è decisivo il ruolo di Claudio Fava, Leoluca Orlando e Beppe Lumia, i capi storici (veramente un po’ logori) dell’antimafia dei partiti. Improvvisamente ritornano i capipolo della loro bella stagione: appoggiano la Borsellino con tutte le loro forze, lasciando anche capire che se i partiti non ci staranno potrebbero andare avanti da soli. Intanto, in tutta l’isola, i comitati pro-Borsellino spuntano come funghi. Il resto è storia di ora. Si comincia a parlare – in pochi: ma se ne parla – di un governo regionale non bilanciato fra notabili di partito ma esemplarmente composto da tutti i capi riconosciuti dell’antimafia vecchia e nuova: da Orlando a Fava, da Tano Grasso alla Siracusa, da Lumia a Umberto Santino, tutti umilmente e orgogliosamente “comisarios” di un governo che da quel momento cesserebbe di appartenere a una sola regione per diventare prefigurazione ed esempio su scala nazionale.

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E adesso? Fino a una settimana fa, bisognava parlare bene degli antimafiosi – del loro entusiasmo, del loro coraggio, del loro ostinatissimo rifiorire nelle condizioni più avverse – e dei più giovani specialmente, un vero dono di Dio a questa Sicilia dalla memoria lenta. Adesso però, adesso che – ecco, ora osiamo scriverlo – forse si vince, è il momento di dare uno sguardo severo, di cercare di individuare il più possibile i punti di debolezza, quelli che ci hanno fatto perdere l’altra volta (qualcuno deve pur farlo, e tanto di laudatori *adesso* ce n’è più che abbastanza). Il primo problema riguarda la mancanza di disciplina, di organizzazione e di coordinamento. I comitati sono sorti dappertutto, e hanno lavorato benissimo, ognuno nella sua zona. Ma questo non basta. E’ bastato per vincere le primarie, probabilmente basterà per vincere le elezioni, ma non basterà assolutamente per governare.

Per governare – per governare davvero, per *rivoluzionare* un assetto sociale che, con aggiornamenti minimi, è ancora quello del feudo e dei baroni – ci sono tutte le forze tranne quella, culturale ed etica, che nei decenni forma il common sense politico e l’organizzazione. Non bastano i sostituti: non basta – non basterà – affidarsi alle strutture (peraltro mediocri) dei partiti ufficiali, non basterà neanche ripetere l’errore della Rete e tentare, in mancanza di meglio, un ennesimo partito tradizionale. No. L’organizzazione politica nuova, che per vent’anni è stata in maturazione e di cui si riscontrano finalmente le condizioni, deve sorgere qui e ora. Non un altro partito, non contro i partiti, non al rimorchio dei partiti ma una rete, flessibile e complessa, egualitaria e competente, di cittadini profondamente pari fra loro, senza famiglie di notabili, senza palazzi.

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Chi e contro chi. “Non sono la candidata dell’antimafia”, “Folle la sfida antimafia contro mafia”, “Non bisogna scatenare la vecchia battaglia antimafia che non risolve niente”. Va bene: però per me la Borsellino è esattamente la candidata dell’antimafia, nè più nè meno, e la battaglia è essenzialmente fra movimento antimafia e poteri mafiosi. Non è “politico”? Non sta bene? Ok: ma anche Solidarnosc, che in teoria si batteva per aumenti salariali e cose del genere, in realtà era prima di tutto – volerlo o no – antisovietica. E per buone ragioni: gli aumenti salariali (e la libertà) non potevano arrivare se prima non se ne andavano i carri armati sovietici, che purtroppo erano lì, qualunquisti, impolitici, sfuggenti a qualsiasi articolo di Merlo o Stella, ma estremamente concreti. Così, se la mafia non se ne va, tutto il resto è poesia. Non illudiamoci di votare a Stoccolma.

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“Vuole fare un’offerta al Telethon per i bambini?” Chissà  perché i bambini spuntano sempre quando si tratta di raccogliere soldi,  anche se in realtà il Telethon raccoglie fondi per la ricerca scientifica sulle malattie genetiche senza fare distinzioni di età. La  domanda mi arriva da uno degli operatori di Trenitalia in sciarpa  arancione che hanno già cominciato a raccogliere sui treni fondi per la  piu’ nota maratona televisiva di solidarietà del mondo. Quest’anno il Telethon si svolgerà dal 16 al 18 dicembre, a meno di un mese  dalla raccolta fondi del 26 e 27 novembre per la ricerca sul cancro.  La trasparenza del Telethon nel raccogliere e gestire i fondi ricevuti e’ stata piu’ volte documentata e garantita, ma ciò nonostante  di fronte a questo fiorire di collette non si puo’ fare a meno di  porsi alcune domande. Anche quest’anno il Telethon sarà censito  dalla Siae come programma di varietà? Per questo motivo nel 2001 il  Telethon ha procurato all’autore del programma, Michele Guardì, una cifra  a minutaggio stabilita proprio dalla Siae, che all’epoca è stata  pari a 153 mila lire a minuto per un programma di oltre 30 ore, il  tutto messo sul conto spese della Rai. Nel 2004 il Telethon ha  raccolto 26 milioni e mezzo di euro: non sarebbe stato meglio metterli direttamente nella finanziaria come tassa sulla salute, spalmando questa cifra su tutti e non solo sui donatori volenterosi? Ha  senso alimentare un modello di ricerca scientifica affidata alla carità dei cittadini e alle emozioni televisive anzichè alla gestione oculata della spesa pubblica? Perché non destiniamo i fondi  per le “missioni di pace” ai giovani ricercatori e facciamo in tv delle collette per chi vuol pagare le trasferte dei nostri soldati e sostenere la spesa militare? Che fare con le malattie rare, prive  di sponsor, testimonial e ricercatori interessati? A quando un  Telethon per combattere la Malaria o altre malattie che colpiscono i  paesi poveri? Nell’attesa di trovare risposta a questi interrogativi, ho deciso di non versare alcunchè al Telethon. Ministro Storace  faccia anche lei una bella colletta televisiva: alla sanità pubblica una decina di euro li manderò più che volentieri. [carlo gubitosa]

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Cartolina da Santo Domingo. “En la Policia Nacional hay estructura corrupta”. Ad affermarlo è lo stesso capo della polizia Bernardo Santana Paez in un’intervista a El Dia. Annunciando un “Plan de seguridad democratica” che taglierà le “companias de policia” da 160 a 10 per poterle gestire e controllare meglio “Ciò che chiediamo – afferma l’ufficiale – es trasparencia”. [roccorossitto]

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Cronaca. < Cellerin che vien di notte/ viene a darti tante botte/ vuoi sul naso o sulla schiena/ l’importante è che ti mena./
Gli occhi fuori dalla testa/ corre, urla, picchia e pesta./ Sono in mille contro cento/ son davvero un gran portento.
Vedi tanti poliziotti/ tanto sangue e nasi rotti/ vedi rabbia negli sguardi/ viene in mente un nom: Lunardi!
Ma in tutte le contrade/ scendon folle nelle strade./ Qui nessuno ha più paura/ gridiam tutti: SARA’ DURA! >
Bookmark: www.notav.it

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Cambiamenti. Il pescatore Palilla Pasquale da Sciacca (Agrigento) ha pescato al largo di casa sua un esemplare di pesce flauto, una specie tropicale – lunga circa mezzo metro – che abitualmente vive nel Mar Rosso e nel Pacifico equatoriale.

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Solidarietà. Ai milanesi, se per caso splende ancora sopra il Pirellone – io manco da diverso tempo e non lo so – il gigantesco supertelefonino da quattromila metri quadrati che, secondo l’amministratore delegato di Motorola Italia, è “la più grande promozione mai messa in atto nel mondo”.

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Antimafia. Roma. Incontri dell’Associazione “Io sto con Falcone”: mercoledì 14, alle 3, al Centro di aggregazione giovanile “Meta”; giovedì alle 9 al liceo San Benedetto in via Saracinesco;  venerdì alle 9 al Kant di piazza Zambeccari, al Giulio Cesare di corso Trieste e al Tasso in via Sicilia. Domenica Equofesta al Circolo degli Artisti (via Casilina Vecchia 42); lunedì alle 18 al Galilei in via Conteverde; martedì 20, alle 9, al liceo Touschek di Grottaferrata. Partecipano Rosario Crocetta, Giovanni Impastato, Giannicola Sinisi, Adriana Musella, Piero Grasso, Barbara Panetta dei Giovani per la Locride, i ragazzi dell’Associazione e alcuni giornalisti.
Info: 339.8477086

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Antimafia. Catania. Osservatorio sulla Mafia, venerdì 16 ai Benedetti. Partecipano Graziella Proto, Riccardo Orioles e i magistrati Sferlazza e Marino.
Info: 333.7295392

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Antimafia. Palermo. Per il passaggio della Carovana antimafie a Palermo, festa di Libera venerdì 16 alla Antonio Ugo di via Arcoleo. Prenotarsi in sede, in via Malaspina 27.
Info: 091.322627

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Alessandro wrote:
< Si rischia meno a caricare dei cittadini, che non a tentare di contrastare la mafia. O forse è proprio quello il metro: lasciare stare la mafia, e massacrare i cittadini che osano dissentire >

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fcaffa1@alice.it wrote:
< In tema di commissioni parlamentari non ci facciamo mancare nulla: dall’avanspettacolo sul caso Telekom Serbia (vi ricordate Igor Marini e i vari Mortadella, Cicogna e Ranocchio?) ai deliri guzzantiani della Mitrokhin e oggi l’assenso di Casini sull’indagine sullo stato d’attuazione della legge 194. Non ci facciamo mancare nulla, a parte l’unico caso per il quale in questi anni una commissioncina, anche striminzita, sarebbe davvero servita. Ehi, ma com’è che vi scordate sempre, in maniera bipartisan, di Genova e di quei tragici giorni di luglio 2001? >

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Giovanni Crescimanni dei Cittadini per l’Ulivo di S. Saba-Roma wrote:
< Trovo molto doloroso che la Margherita non abbia appoggiato la candidatura della Borsellino in Sicilia perchè si tratta di un nome simbolo della lotta alla mafia. In una regione dove alle ultime elezioni politiche abbiamo perso in tutti i collegi, mi risulta veramente incomprensibile che si siano investiti soldi per promuovere la candidatura alle primarie di un ex Forza Italia, invece di dedicare tutte le risorse disponibili per sconfiggere il centrodestra >

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Persone. Carla Voltolina Pertini, la compagna di Sandro Pertini, era stata arrestata dalle Ss nel ’44. I partigiani riuscirono a farla evadere insieme ad altri prigionieri. Lei era piemontese, di mestiere faceva  la psicologa. Non è stata mai first lady o roba del genere: aveva una vita sua, si mostrava pochissimo alle cerimonie e quando il compagno presidente faceva una cazzata non mancava di farglielo rilevare (si erano conosciuti mentre si faceva l’Italia, nei partigiani). Ha fatto inchieste sulle carceri, sugli anziani e sulla prostituzione. Ha collaborato con Lina Merlin nella battaglia per abolire le case chiuse. L’ultima cosa che ha fatto, pochi mesi prima di morire, è stato un appello alle persone democratiche perché si opponessero “allo stravolgimento bonapartista della Repubblica”.
Che Italia eravamo, amici miei.

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gianni donaudi <gdonaudi@yahoo.it> wrote:

L’assemblea
< Il sole tossisce rosso in volto/ tra nubi dense di anidride solforosa
pulviscoli giallastri/ terribili.
L’ assemblea davanti ai cancelli/ è immensa.
Il cielo e la terra testimoniano/ felici.
È tutta un grido preciso/ inconfondibile.
Non vogliamo maschere antigas/ né a Porto Marghera né altrove.
Impacchettate tutte le vostre fabbriche/ il vostro progresso.
Non vogliamo la morte.
Portate via la morte immediatamente >

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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)