San Libero – 246

30 agosto 2004 n. 246

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Giornalismo. Che differenza c’è fra il giornalismo – per esempio – di Feltri e quello – per esempio – di Baldoni? Non parlo di differenze “politiche”. Da un punto di vista tecnico, voglio dire.
La differenza è che Feltri grida, mentre Baldoni parla a bassa voce. Non è una novità: anche Appelius gridava (“Il generale Badoglio è entrato ieri ad Addis Abeba”) e anche Hemingway (“Vecchio al ponte”) parlava a bassa voce. Destra e sinistra dunque, attraverso le generazioni? Non solo. C’è qualcosa di più, che attiene proprio alle radici profonde del mestiere.
Il giornalismo di Feltri nasce in un mondo sostanzialmente povero di notizie. Un mondo in cui ciò che succede accade lontano, arriva tardi, e incide relativamente poco sulla vita quotidiana. Quest’ultima, a sua volta, è una vita “normale”. Di una normalità che nessuno mette in discussione. “Il generale è entrato ad Addis Abeba”? E che ce ne frega. Non ha importanza, poi, sapere che cosa ne pensa il barbiere di Addis Abeba. Tanto non lo incontreremo mai – il mondo in cui viviamo non ha nulla a che vedere col suo.
Da questo discendono subito due cose. La prima è che la notizia coincide con lo scoop, deve avere un “effetto” traumatico immediato e dev’essere gridata. La seconda è che il gestore di questa notizia, essendo uno dei pochissimi autorizzati a gestirla, è una persona importante. Poiché non mette assolutamente in discussione (e perché dovrebbe?) la “normalità” del sistema, e poiché questo sistema è basato su una gerarchia – ristretta e distinguibile – di piccole e grandi Autorità locali, di notabili insomma, ecco che il giornalista diventa un notabile anche lui. Feltri, e Appelius, in fondo non sono dei giornalisti “fascisti”. Sono semplicemente dei gerarchi, dei notabili, esattamente come il sottosegretario dei trasporti o il podestà di Ravanusa. In più, hanno il bisogno fisiologico di “alzare” emotivamente le “notizie” che danno (“il Negus è semianalfabeta”, “Baldoni è d’accordo coi terroristi”) perché il valore delle loro notizie dipende principalmente dall’emotività che veicolano qui e ora.
Nel caso di Baldoni – del giornalismo di Baldoni – il background è ben diverso. Non siamo più in un mondo in cui si aggirano pochi e stenti segnali. Siamo in un mondo pieno di informazioni, piccole e grandi, per lo più immediatamente visibili nella nostra vita quotidiana. Il somalo, per me, non è un oggetto esotico che trovo sul giornale: è semplicemente il tizio che sta sull’autobus accanto a me. Siamo nello stesso mondo. Da lui, e dal suo mondo, mi giungono continuamente delle informazioni. Il mondo non è nemmeno più un mondo notabilare, retto da pochi. E’ un mondo ramificato e complesso, in cui il potere è dato dal consenso. Se al mio nipotino non piacciono le patatine McDonald, e questo finisce nei sondaggi, il presidente Mc Donald – un uomo potente – è nei guai. Questa è una novità, una novità che pesa.
Così lo scoop, l’effetto, perdono di valore. Gridare è quasi inutile, perché qua parlano tutti. Una vociata occasionale può turbare il lettore d’oggi, ma non persuaderlo. Bisogna convincerlo a poco a poco, sommessamente. Ragionare. Parlare. Portare le cose “piccole”, ma fondamentali, su cui la nostra vita si basa, dappertutto. Perciò, se il giornalismo vecchio era quello dell'”effetto”, il giornalismo moderno è quello della “storia di vita”.
La storia si può raccontare con molti trucchi tecnici, per lo più molto antichi (presente Erodoto?). Ma i suoi strumenti fondamentali appartengono all’intellettuale umanistico, alla persona; non al “giornalista” nel senso – specialistico – feltriano. Io per esempio sono un giornalista perché so usare XPress, calcolare un battutaggio, passare un pezzo, mettere in piedi un cartaceo e così via. Non sono un giornalista per quel che scrivo. Questo può farlo “chiunque”, con una determinata formazione, e lo farà tanto meglio quanto più sarà vivo. Lo strumento culturale di base non è più cioè l’appartenenza a un notabilato specialistico, ma la partecipazione colta e cosciente alla vita quotidiana delle persone. Questo significa subito che, se faccio il giornalista, non sono necessariamente un notabile: sono semplicemente un tecnico specializzato (in XPress). Per il resto, valgo quanto vale la mia sensibilità e la mia cultura: come tutti.
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Il giornalismo antico aveva dei mezzi di distribuzione assai limitati. Marco Polo è riuscito a raccontare quel che aveva visto solo grazie a una serie di colpi di culo (finire in cella con un intellettuale) del tutto imprevedibili. Kipling aveva bisogno di un editore. E tutti abbiamo avuto bisogno di rotative, di distributori, di macchine, in ultima analisi (salvo eccezioni: I Siciliani, Avveimenti e altri pochi) di un padrone. Il giornalismo antico è, per sua tecnologia, coartabile e centralizzato.
Il giornale di Baldoni invece si chiama Bloghdad.splinder.com. Se vai su Splinder, puoi farti il tuo giornale – non dico i contenuti – nel giro d’un paio di ore. Difatti, ce ne sono migliaia. Puoi farlo benissimo anche tu. O puoi fare una mail, un sito, una e-zine come questa. Puoi *comunicare*.
Il giornalismo moderno ha dei mezzi di distribuzione illimitati. Non è centralizzato, e non è coartabile da nessuno. L’unica cosa che gli manca è l’antico status notabilare. Questo è un guaio per il giornalista. Ma non per il lettore.
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Questa trasformazione è avvenuta ormai da diversi anni, il suo strumento tecnico è l’internet, la sua ideologia l’umanesimo e il suo backgound storico la globalizzazione. Baldoni c’era dentro fino al collo. Adesso, naturalmente, è un “giornalista” anche lui, ora che è morto. Come la Cutuli (promossa inviata dopo), come Ciriello, come Beppe Alfano ucciso dai mafiosi in Sicilia e pagato tremila lire a pezzo, come quel collega di Catania che in questo momento, per sopravvivere, sta scaricando casse e imballaggi all’aeroporto. “Giornalisti” tutti. Ma forse è arrivato il momento di separare le razze. Se Feltri è giornalista, evidentemente Baldoni non lo è. E viceversa. Non è un discorso moralistico, come si dice. E’ semplicemente un fatto tecnico, di mestiere. Fra vent’anni, vedremo chi dei due sarà considerato storicamente un giornalista e chi no.
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Sarebbe bene che anche coloro che – notabilarmente – tengono i registri del “giornalismo” comincino a riflettere un po’ su queste cose. Mi riferisco all’Ordine dei giornalisti e alla Federazione della stampa. Sono dei club simpatici, che hanno avuto una loro funzione ai tempi del giornalismo antico. Adesso però debbono decidere se vogliono continuare a occuparsi di giornalismo o no.
Che fine fanno – tanto per dirne una – tutte le polemiche di salotto su Farini? Roberto Farini, braccio destro di Feltri, è quello che ha affermato che Enzo Baldoni era amico dei terroristi iracheni. L’ha scritto nero su bianco, avendone dunque (visto che è un giornalista) le prove. Non l’ha scritto perché ce l’avesse in particolare con Baldoni – che gliene frega – ma così tanto per fare lo scoop, per l'”effetto”. Bene: questo Farini è un “giornalista” o no? In questo momento, nel sistema dei notabili, c’è un’autorità precisa che può stabilirlo, ed è l’Ordine dei giornalisti. Mi aspetto che esso risponda a questa domanda, visto che tocca a lui rispondere. Se no, bisognerà pur trarne qualche conseguenza.
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Non è solo l’Ordine, il notabilato, ad essere stato povero in questa vicenda. Io temo che anche la categoria nel suo complesso abbia capito poco di quel che è successo con Baldoni. Il sito non ufficiale più autorevole del giornalismo italiano è, secondo me, il Barbiere della Sera. E’ nato come “giornale” spontaneo dei giornalisti, col preciso intento di mettere in piazza ciò che succedeva dietro le quinte dell’informazione. Povero, scattante, appassionato, ha avuto un suo ruolo preciso in quegli anni. Poi, come a tanti succede, s’è ingrassato e s’è ingrandito, e ora è un bel portale di quelli che appena li clicchi ti sparano subito i flash di pubblicità. Non lo leggevo da qualche tempo, l’ho fatto adesso per vedere il dibattito su Baldoni. Ho trovato quanto segue:
“Poi però al fine settimana, il nostro si mette la tutina da Superman e va a giocare all’inviato di guerra”.
“Lo spirito da avventuriero con cui affronta le sue imprese”.
“E non è un caso che anche ai dirigenti della nostra categoria non sia piaciuto questo finto inviato di guerra”.
“Deaglio, snob della sinistra, vergognati!”.
“Non conosco personalmente Enzo Baldoni, ma che sia un personaggio un po’ egocentrico, e forse anche leggero ma non per questo buono…”.
“Baldoni è simpatico, ma, ripeto, NON lo considero un giornalista”.
“Una persona così è un danno per la categoria”.
Questa, naturalmente, non era l’opinione di tutti. La maggior parte degli interventi erano complessivamente civili. Ma c’erano anche questi – una consistente minoranza – e facevano opinione.
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Anche le giornaliste Rai, se ve lo ricordate, erano “amiche dei terroristi”. Quelle inviate in Iraq, durante e dopo la guerra: sono state insultate esattamente come Baldoni, perché “non erano professionali”, erano “simpatizzanti di Saddam” e compagnia bella. Va bene: in questo momento, purtroppo, la cultura di destra in Italia è ridotta a un livello molto basso, e ne escono cose come queste. Potremmo “buttarla in politica”, e finirla qui. Purtroppo, il problema è più profondo e riguarda la complessiva concezione del giornalismo in Italia, l’uscita – per chi vuole e può – dal notabilato e il ruolo, nel giornalismo moderno, dei “giornalisti”.

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Estate 1. Il ragazzo scappato dalla Tunisia per sposare la donna conosciuta al Mediterranee. Nel paese della ragazza vige la legge islamica, che vieta l’ingresso agli infedeli stranieri. Così lui ha dovuto nascondersi nel bagagliaio della macchina, sul traghetto, per cercare di venire inossservato. E’ morto d’asfissia là dentro. Si chiamava Amor.

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Estate 2. Il marocchino cascato giù dal cantiere, mentre lavorava da muratore. L’hanno caricato sul camioncino e l’hanno scaricato in un fosso, ad agonizzare. “Noi non lo conosciamo. Sarà stato investito da qualcuno”. Per puro caso, l’anni salvato i carabinieri. Tutto questo, ad Assisi.

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Estate 3. Il delfino che voleva bene ai bambini. Una volta ne aveva salvato uno, caduto giù una barca. Un’altra volta s’era messo a “parlare” con una bambina autistica, e lei rideva. Saltava attorno alle barche, amava gli esseri umani e si chiamava Filippo, per i Bambini. Ucciso dall’elica di un motoscafo, davanti a Manfredonia.

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Estate 4. Milioni di italiani rientrano, ecc. Il presidente del Consiglio ha dichiarato, ecc. Il nuovo libro di D’Alema, ecc. E poi sport.

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Linux. Presentata in trentaquattro nazioni l’agenzia istituita dall’Onu a favore della diffusione di software libero in tutto il mondo, e particolarmente nelle aree più povere del pianeta. Si chiama Iosn (International Open Source Network) e fa parte dei progetti del Programma di Sviluppo dell’Onu. L’Iosn comincerà la sua attività dai paesi dell’Estremo Oriente, dove l’open source è già presente da diversi anni. In Cina opera già un Laboratorio di Sviluppo che sta sviluppando un sistema operativo in lingue orientali basato su Linux). A partire da quest’anno, il 28 verrà celebrato dalle Nazioni Unite come “Software Freedom Day”.

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Cronaca. Palermo. Arrestato grazie alla collaborazione della popolazione l’uomo che nel corso di una rapina aveva ferito un bambino che giocava per la strada a Ballarò.

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Cronaca. Roma. Protesta delle donne detenute nel carcere di Rebibbia. Protestano per la detenzione dei figli di alcune di loro, costretti a restare con le madri in carcere all’età di pochi mesi o pochi anni. La legge prevede la non-carcerazione delle madri con figli inferiori a dieci anni. Tuttavia a Rebibbia ce ne sono almeno venti.

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Cronaca. Torino. Ferie in autostrada per i coniugi Rina e Antonio Burzio. Durante una sosta in camper si sono accorti di aver smarrito il loro cane. Sono rimasti ad aspettarlo nella piazzuola di sosta da cui l’animale s’era allontanato, rinunciando alle ferie per amore del loro care.

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Pechino. Rinvenuto in una località della Cina settentrionale un mortaio in lega metallica la cui fabbricazione sarebbe datata attorno al 1200. La prima “arma totale” europea risale invece circa al milletrecento ed era, come sapete, un rudimentale mortaio in grado di sparare blocchi di pietra (non radioattivi) più o meno sferici. “Sparare”, in effetti, era la parola usata nei briefing tattici per programmare le azioni: ma di cannonate reali ne partivano molto poche, tre o quattro in un giorno. E doveva essere un giorno fortunato, in cui il cannone sopravviveva fino a sera senza esplodere con tutta la compagnia.
Tutto ciò costava moltissimo, era macchinoso da usare, ed era anche politicamente sospetto in quanto non era affatto sicuro che le cannonate fossero teologicamente compatibili col cristianesimo. Perciò i governi più avveduti si guardavano bene dal caricarci sopra investimenti eccessivi: anche perché fra le vecchie tecnologie c’era roba analoga che funzionava benissimo, per esempio la vecchia sperimentata catapulta con cui Edoardo d’Inghilterra demolì tranquillamente i castelli feudali dei baroni d’opposizione. Insomma, se la polvere da sparo fosse stata quotata in borsa la gente non avrebbe fatto a cazzotti per comprarla. Un asset manager l’avrebbe consigliata per diciamo un quindici per cento all’interno d’un buon investimento diversificato.
Tutto questo per dire che la polvere da sparo in Occidente, per almeno una cinquantina d’anni, non è stata affatto una storia di successo. Poi una serie di iniziative estremamente specializzate (tipo: esplorazione portoghese in Africa, assedi di città ex bizantine, ecc.) portò a individuare dei mercati di nicchia abbastanza remunerativi. Infine, grazie all’attenzione suscitate da queste nicchie e valendosi del know-how maturato in esse, la polvere da sparo fu massicciamente adottata da due grosse aziende come la Re di Francia e la Eredi Ottomani.
La prima mise in campo un’intera linea di piccoli e versatili “cannoni”, ampiamente pubblicizzati, con i quali invase tutte le città italiane (ma si discute ancora quanta parte di questo successo fosse dovuta alla campagna di lancio e quanta alle qualità del prodotto). Gli Ottomani invece preferirono concentrarsi su pochissimi modelli, costruiti praticamente in esemplare unico (ognuno di essi aveva un nome!), assolutamente non trasportabili, a impianto fisso ma della massima potenza: non ottennero tanti piccoli successi come i francesi ma riuscirono tutto d’un colpo a far breccia nientedimeno che su Costantinopoli. A questo punto, ovviamente, le catapulte erano obsolete da un pezzo; però dai cannoni iniziali era passato già un secolo e mezzo, per cui parecchi soggetti (per esempio, tutte le città e staterelli dell’Europa centrale) erano rimasti tagliati fuori dallo stato dell’arte e non riuscirono mai a rimettersi in pari. Buona parte della storia d’Europa fino al Settecento incluso viene da lì.
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In Europa, quindi, la tecnologia-cannone arriva tardi, entra sul mercato con difficoltà e si stabilizza abbastanza faticosamente. A quel punto, però, diventa rapidamente decisiva e il suo stato dell’arte si pone come discriminante fra chi è dentro e chi è fuori. Ma, e in Cina? In Cina, come sappiamo, l’elemento base della tecnologia in questione (la capacità esplosiva della polvere da sparo) era noto da molto più tempo: almeno sette-otto secoli, secondo le stime più limitate. Fino a poco tempo fa si pensava che avessero la tecnologia di base, ma non le applicazioni specifiche di prodotto: fuochi artificiali sì, cannoni no.
Adesso però, con la scoperta del mortaio del tredicesimo secolo, le cose cambiano. I cinesi non solo avevano la capacità generale di utilizzare l’energia esplosiva per d’intrattenimento, ma avevano anche sviluppato prima di tutti una prodotto specifico per coprire lo stesso settore (l’impiego militare) su cui la tecnologia della polvere trovò il suo mercato in Europa. Cos’è mancato allora? Le condizioni storiche? No, direi di no.
I problemi geopolitici – relativamente alla tecnologia in questione – della Cina nel tredicesimo secolo non differivano moltissimo da quelli europei. Non c’era, è vero, la necessità del potere centrale di tenere a freno una molteplicità di interessi feudali locali con interventi militari mirati: ma questo, in Europa, era stato praticamente risolto *prima* della nuova tecnologia, e non può dunque essere considerato discriminante. C’era invece un confronto militare continuo, di solito a bassa intensità ma con picchi drammatici, con masse di popolazioni seminomadi esterne, nel quale l’adozione della nuova tecnologia in Europa si rivelò l’elemento decisivo, e in Cina rimase assente.
L’unico elemento di differenziazione, in realtà, fu quello culturale. I cinesi, in sostanza, *non vollero* (cioè: la loro organizzazione sociale non permise) sviluppare su vasta scala il cannone. Una questione economico-strutturale di vastissima portata fu decisa cioè da un elemento non economico e non strutturale.
Gli esempi di questo tipo non sono molti, nella storia; non è esagerato dire che non raggiungono la mezza dozzina (la navigazione oceanica, sempre in Cina e quasi parallelamente al cannone; la ruota nell’America precolombiana; gli albori della termodinamica, nel mondo alessandrino; e pochissimi altri). Ciascuno di essi nella storia del mondo ha però avuto un impatto decisivo – l’aspetto del pianeta sarebbe cioè completamente differente, se una o più di queste scelte *culturali* fosse stata sviluppata in termini differenti.
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E noi che cosa c’entriamo, adesso, con tutta quest’arrugginita storia di cannoni cinesi? Beh, inutile cercare la battuta ad effetto, tanto l’avete già capito perfettamente. C’entriamo perché quello che si è verificato in quelle occasioni potrebbe perfettamente ripetersi adesso, in questo momento. Un momento in cui tutto un versante dello sviluppo tecnologico è stato rapidamente abbandonato (“Or che bravo sono stato/ posso fare anche il bucato?”: nessuno con meno di trent’anni è in grado di riconoscere questo slogan…) e ne è stato aperto un altro completamente nuovo.
In questo nuovo continente in cui ci siamo avventurati, le varie opzioni disponibili sono governate teoricamente dalla logica. In realtà, esse sono pesantemente interferite da meccanismi che per brevità definiamo di mercato (la brevità è resa necessaria dal fatto che non sappiamo esattamente che cosa il mercato oggi sia) e da altri e paralleli meccanismi che correntemente definiamo di mercato anch’essi, ma che invece sono essenzialmente dei meccanismi culturali (e, qualche volta, forse addirittura religioso-ideologici). Ma è così? E se è così, dov’è la linea di discrimine fra gli uni e gli altri? E, fra quelli culturali, quali sono “nuovi” e quali invece zavorra della precedente fase, ora obsoleta? Chi sono insomma oggi – la domanda da mille dollari – i mandarini che rischiano di farci fare i fuochi d’artificio ma non i cannoni?
A nessuna di queste domande, ciascuna delle quali è decisiva, noi siamo in grado di rispondere oggi. Cosicchè, se per caso stiamo diventando “cinesi”, non lo sappiamo.

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Luigi Ficarra wrote:
< Gela, città ad alta intensità mafiosa, è oggi amministrata da una giunta di sinistra diretta dal Sindaco Rosario Crocetta. Il quale sta caratterizzando la sua amministrazione in una battaglia a viso aperto contro la mafia. Fra i tanti esempi del suo molteplice intervento indichiamo quanto sta facendo sulla questione dell’acqua. Questa è stata sino ad oggi monopolizzata dalla mafia, che l’ha fornita ai cittadini ad un prezzo molto elevato, proibitivo per i più poveri. Ebbene, il sindaco fa ora girare per le strade delle autobotti del Comune, fornendo a tutti l’acqua ad un prezzo di gran lunga inferiore a quello che imponeva la mafia. Molto importante e di enorme valore è poi la pulizia radicale che sta realizzando nel campo degli appalti. La delinquenza mafiosa l’ha già minacciato più volte di morte. Ed egli, sprezzante e saggio come il compagno Roxas (quello del “Romanzo civile” di Giuliana Saladino), risponde che “importante è come si vive; della morte non ha senso avere paura, ché tutti dobbiamo morire; occorre però affrontarla a testa alta, con la coscienza di aver bene operato, e da uomini liberi”.
Abbiamo ritenuto doveroso esprimere al Sindaco Rosario Crocetta di Gela la nostra piena solidarietà di giuristi democratici, anche perché possa contare in qualunque momento ed occasione sulla fattiva partecipazione ed il contributo di tutti noi. “L’Associazione Giuristi Democratici – gli abbiamo scritto – concorda con Lei nel dire che la mafia si combatte sì con un’energica repressione giudiziaria, ma che occorre soprattutto una battaglia politica che smuova la coscienza civile dei cittadini, come sta facendo Lei. Il suo esempio è l’opposto della triste immagine offerta da Cuffaro, oggi disonorevolmente imputato di favoreggiamento alla mafia” >

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mimmolombezzi wrote:
< Immaginiamo il seguente gioco televisivo: da una parte in una cabina si mette Calderoli e gli si proiettano prima le dichiarazioni di Pisanu sulla necessità di rottamare la “Bossi-Fini” poi quelle di Buttiglione-Montezemolo sull’ opportunità di rottamare la “Devolution”….accanto in un altra cabina si mette l’ottimo Capezzone il segretario dei Radicali e gli si proiettano le uscite di Sirchia sulla fecondazione assistita,le dichiarazoni di Berlusconi sui “terroristi Ceceni” o la proposta dell’on Gentile di tassare gli aborti…. Mentre le telecamere stringono sui primi piani un sistema di sensori colorati segnala in diretta chiè il più incazzato. Sarà lui che celebrato da una sfilata di gnocche vincerà il “ROSP-PARADE-AWARD”: il premio per il maggior numero di rospi ingoiati nella prospettiva di restare o di entrare nella maggioranza >

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sandro@kensan.it wrote:
< Visto che il petrolio sta finendo occorre trovare delle fonti di energia alternative, oltre al nucleare vi è l’eolico e il solare. A ottobre dell’anno scorso la ST Microelectronics divulgava la notizia di avere trovato un sistema efficiente per ricavare elettricità dal sole. Il suo comunicato stampa parlava di celle fotovoltaiche polimeriche di nuovo tipo con efficienza del 10% e costo di 0.20$ al watt per venti anni. La durata di queste celle non è stata chiarita. Una cella in silicio dura 20 anni, costa venti volte di più e ha una efficienza del 20% (celle monocristalline). Nell’annuncio il ricercatore a capo del gruppo di ricerca, Salvo Coffa, diceva: “We believe we can demonstrate 10 percent efficiency by the end of 2004…”

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dhmipa@tin.it wrote:
< E’ stato ucciso due volte: la seconda dai terroristi iracheni, la prima da certi giornali e giornalisti italiani che lo hanno accusato di essere un amico dei terroristie hanno insinuato che per questo sarebbe stato liberato. Hanno interpretato male i fatti, o hanno blaterato inutili e false ciarlerie apposta, per fare del male? E’ stato definito da Feltri un “giornalista della domenica” che andava in Iraq per farsi vedere e per fare politica. Ciò che scrive Feltri mi fa schifo, ma non posso e non voglio impedire che continui a scriverlo, anzi è meglio che lo faccia, così che tutti capiscano che razza di persona è e quanto ci si possa fidare di lui e di ciò che dice >

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Andrea Sciuto wrote:
< Contrariamente a quanto ripetono i giornali, io non credo che l’Italia ricorderà Enzo Baldoni assieme a Quattrocchi e ai martiri di Nassiriya. Baldoni è andato in Iraq armato di carta e penna, non di fucile. E con tutto il rispetto verso chi altrimenti sceglie, la differenza c’è, e pesa molto. Si possono portare aiuti difendendosi con le armi, oppure si può andare a mani vuote; si può accettare che la logica della violenza sancisca il diritto, sgomini l’oppressore, oppure, semplicemente, si va, e ci si affida. Enzo Baldoni aveva solo la sua vita, e quella ha dato >

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Tito Gandini wrote:

Nati d’autunno

< Che l’autunno
ci posi, pensiero,
nel grembo di madri

Crepi tutto
da novembre
a febbraio

Settembrini siamo
spossati dal nascere
inetti all’inverno
coviamo per sempre il tepore >

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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)