San Libero – 13

Tunisino, trent’anni, settecento lire in tasca, solo in aperta campagna in Toscana, digiuno da un tempo imprecisato, Amhed alla fine s’è avvicinato a un pollaio e ha rubato una gallina. Il cane da guardia – italiano – se n’è accorto e l’ha inseguito latrando. Amhed è riuscito a sfuggire al cane. Arriva una pattuglia, altolà-chi-va-là e l’inseguimento ricomincia, Amhed davanti e l’Italia dietro. La fame non rende veloci, e un’ora dopo Ahmed è in caserma fra due carabinieri.
Documenti, denuncia, rilascio a piede libero, e provvedimento d’espulsione immediata (non è la prima volta che Ahmed prova a fare il furbo con l’Italia: già l’avevano beccato a dormire in una casa occupata). Amhed esce dalla caserma, con le sue settecento lire in tasca, più il foglio dell’espulsione, e cammina. Arriva a un palazzo perbene, un condominio d’italiani, alza lo sguardo e vede, lassù sul terrazzino al primo piano – dei panni stesi. Si arrampica faticosamente sul terrazzino e stacca con delicatezza i panni, ad uno ad uno. Poi stacca il filo, lo lega a una sporgenza – e s’impicca.
Ce n’è un altro di meno, signora Italia. Contenta?


Saggezza zulù. “E meglio avanzare e morire, piuttosto che fermarsi e morire” (un detenuto del carcere di Turi).


Da leggere insieme: Luttwark, “La dittatura del capitalismo” e Revelli, “Fuori luogo”.
È strano il titolo del primo libro. Luttwark, per quanto ne sapevamo finora, è uno storico dell’impero (americano, naturalmente; ma col fantasma della “pax romana” che aleggia costantemente fra le pagine, secondo tradizione anglosassone da Gibbon in poi) e ha scritto delle cose molto solide, già negli anni Ottanta, sulla geopolitica militare Usa-Urss. Con troppo Tucidide alle spalle per aderire alla fiction dell'”Impero del male”, Luttwark è tuttavia un sincero propugnatore dell’american way of life in tutti i campi, dalla torta di mele ai marines, un liberale di destra (molto di destra) e, orgogliosamente, un anticomunista. La tesi de “La dittatura”, se abbiamo capito bene, è che il vecchio capitalismo è sfuggito di mano ed è diventato un’altra cosa, che lui chiama “supercapitalismo” e che ha qualcosa a che vedere col sistema de “L’orrore economico” d’un paio d’anni fa (come si chiama l’autrice? perdonatemi, ma scrivo senza materiali).
Qui però non siamo nel dickensiano e nel pamphlet, ma in uno studio socio-economico denso di tabelle. E la vittima, secondo Luttwark, non è il povero del terzo mondo o il giovane disoccupato – è proprio il capitalismo in se stesso: divorato per così dire dall’interno da un nuovo sistema, ancora non bene analizzato, di cui il tratto principale è l’incontrollabilità rispetto a qualsiasi legge e il prevalere di una nuova casta di manager svincolati da qualsiasi rapporto produttivo e/o sociale.
In uno dei primi capitoli cita dettagliatamente, con gran puntiglio di dati, il caso della Boeing. La Boeing è uno dei protagonisti del complesso militare-industriale di cui parlava Eisenhower alla fine del suo mandato. Niente di male, per Luttwark; persino l’obsolescenza della concorrenza e il pericolo del monopolio sono per lui quasi accettabili (per questo parlavo di liberale “di destra) in vista dell’interesse nazionale. A un certo punto, dunque, la Boeing si aggiudica una grossa commessa – cerco di riassumere alla meno peggio – di aerei. Non importa come ci sia riuscita: è comunque un bene per la produzione. La Boeing tuttavia ha difficoltà a star dietro alla commessa nonostante le tecnologie e i ricorso agli straordinari, il personale di fabbrica risulta insufficiente. Emergenza: si rischia di perdere almeno una parte della commessa.
Proprio a questo punto, il supermegamanager decide di licenziare, con gran clamore, alcune migliaia di operai. Quasi immediatamente, la produzione crolla e – come prevedibile – parte della commessa va a farsi benedire. Contemporaneamente, però, in borsa le azioni Boeing salgono alle stelle: la “prova di carattere” data dal managment ha convinto gli investitori (per lo più middle class pulviscolare finanziariamente gestita via computer) che il loro denaro è in buone, anzi in ottime mani. I capi della Boeing – pensa l’azionista – sono dei pessimi industriali, e gettano via i soldi; ma sono degli ottimi finanzieri, che non indietreggiano a nulla pur di aumentarmi il dividendo tagliando i costi.
Questo ragionamento, probabilmente, non può durare molto a lungo ma: 1ç una quota significativa delle azioni vengono possedute per un periodo di tempo estremamente limitato, tale da rendere remunerativo il mordi-e-fuggi; il potere e l’interesse personali del top managment sono tali da costituire ormai un fattore significativo nela determinazione delle scelte aziendali. La Boeing, cioè, si concentra la tattica e abbandona la strategia (il bottino della battaglia si raccoglie subito, e immediatamente dopo si abbandona quella particolare guerra); cessa di essere un’industria e diventa una massa di denaro mobile, ed è rapidissimo il movimento. Il capitale, in particolare, a questo punto non ha più niente a che vedere con le teorie classiche che gli assegnavano un rapporto più o meno stretto coi mezzi di produzione. Il capitalista non è più chi è “proprietario” del capitale ma chi lo gestisce nel breve periodo. E il capitalismo? Boh. Ammesso che ce ne sia ancora solo uno.
Il Boeing caduto in Atlantico, qualche settimana fa, apparteneva, come almeno un altro esemplare vittima d’incidente, a una serie di apparecchi usciti dalla fabbrica esattamente in periodi del tipo descritto da Luttwark. L’inchiesta sull’incidente, come forse ricordate, non ha raggiunto risultati certi e difficilmente ne raggiungerà in futuro. Come giornalista, registro che nel giro di otto giorni i media hanno parlato, successivamente, di: misterioso incidente; incidente forse dovuto a cause strutturali; incidente sicuramente dovuto al suicidio del pilota; incidente non dovuto affatto al suicidio del pilota ma, con altrettanta certezza, all’azione di un fanatico integralista; incidente non dovuto all’azione di un fanatico – non essendovi alcun riscontro in tal senso – ma a cause ancora oscure prima o poi da accertarsi.
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Il libro di Marco Revelli, “fuori luogo”, si legge molto più in fretta. Campo abusivo di zingari a Venaria Reale presso Torino; Rivolta degli abitanti del luogo, per lo più operai Fiat in pensione; richieste di soggiorno respinte; l’inverno subalpino, i cinque gradi sotto zero; il Comune (di sinistra, “comunisti” inclusi) che nega le stufette, l’Enel (presidente ambientalista) che nega l’allaccio elettrico, i neonati del campo sottoposti al rilievo dell’impronta digitale… Alla fine decreto di espulsione, rastrellamento, ruspe sul campo.
Revelli, che scrive caldo, da Ottocento, è schoccato dal numero delle volte in cui compare la parola “sinistra” (gli intellettuali di sinistra torinesi che negano solidarietà, gli amministratori di sinistra ecc. ) in questa storia classica, e feroce, di repressione etnica d’una minoranza. Noi, avendo avuto forse più tempo e migliori occcasioni di lui per rifletterci, siamo meno sorpresi. Con l’avvertenza che (contrariamente a quanto, non diciamo Revelli, ma molti altri uomini buoni, ma non ancora politici, tendono a fare) noi non crediamo affatto che non ci sia più o non debba esserci o non ci sia mai stata differenza fra sinistra e destra; ma che la sinistra vecchia, legata ad altri rapporti di produzione e società che un tempo la giustificavano ed oggi sono solo teologia, abbia semplicemente cessato di essere sinistra vecchia, futura o attuale. E non è una novità, ché già diverse volte nella storia si è ripetuto questo ciclo; che di norma sfocia nella creazione, consapevole o meno, di qualche altra cosa alla quale poi gli storici daranno (ma non è obbligatorio aspettare loro per cominciare a costruirla) il canonico nome di “sinistra”.
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Marco Revelli è attualmente impegnato nella costruzione di “Carta”, rivista dei “cantieri sociali”, di cui si può sapere qualcosa su http://www.sherwood.it/carta (mail: carta@sherwood.it).


“Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
Ramondo Beringhier, e ciò li fece
Romeo, persona umile e peregrina.
E poi il mosser le parole biece
a dimandar ragione a questo giusto,
che li assegnò sette e cinque per diece,
indi partissi povero e vetusto;
e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo loderebbe. “