Carne di cavallo

 

Tutti furono sgamati, tranne Buscemi e Concetta, che si erano appartati sotto i portici di un palazzo per man- giare carne di cavallo. Carne tenerissima era quella, di seta dolce, sanguinolente, era la carne di Ciccio Canaglia che arrusteva imbacuccato col cappello ficcato fino alle orecchie. Il fumo della brace mischiava il sentore d’acetoforte alla brina argentata, e l’odore delle cacocciole arrostite faceva venire l’acquolina in bocca.

 

“Ti sfizia?” domandò Concetta.

Santo Buscemi morsicò il panino imbottito con la salsiccia e le melanzane, ma non rispose. Aprì la coca- cola e tracannò dalla lattina.

Ciccio Canaglia invece ungeva carne equina strofi- nando il mazzo d’origano imbevuto nell’aceto.

“Ci vorrebbe una putia anche a Los Angeles!” disse Concetta che negli States c’era stata.

Ciccio Canaglia la taliò bene bene da sotto il cappuccio. Riscaldava i panini sopra la graticola, usava le dita come pinze. Una lampada al neon alimentata dal gruppo elettrogeno chiazzava di luce tra pilastri e calcina. La ragazza si pulì il muso.

“U sai unni semu?” gli spiò la femmina con tono smaccoso.

“U sacciu” rispose Santo alzando il collo e muoven- do il labbro superiore in su.

“Io acchiano lassù” disse lei.

Alzò il braccio e puntò l’indice verso l’ultimo piano di un palazzone dirimpetto. A Santo Buscemi venne il risolino, credeva che la ragazza babbiasse.

“Voglio taliare il paesaggio dal pizzo del palazzone” continuò lei.

Buscemi la sogguardò stranizzato. La femmina gli parve un po’ strammata, gli occhi le brillavano come luci di Sant’Aita: indossava un giubbotto gonfio e nero, la testa coperta da un passamontagna. Buscemi pensò certe cosuzze smaniose, faceva azzardate e il cuore pompava a briglie sciolte. Quindi, spronato dal sentimento, le afferrò la mano e rispose: “Occhei beddazza!”

Corsero in direzione del palazzone col rischio di asdirubbarsi. Correvano abbrancicati, scorgevano sagome di cose nere simili a macchie d’inchiostro di china. Salirono tre quattro gradini, raggiunsero un por- ticato. Concetta accese una lampadina tascabile. Il fascio di luce imbiancò scarabocchi, graffiti e lordume schifevole. C’erano un effluvio eccitante, zaffate di spurgo e fetore sciroccato. Giunsero ad un portone chiuso. Concetta era femmina sperta, aveva fil di ferro e cacciavite nella borsetta. S’abbassò sulle ginocchia e forzò l’inchiavata.

Entrarono, l’ascensore era fuori uso.
Acchianarono per le scale scure scure.

“Cosa pensi di me?” chiese la femmina col fiato grosso.

“Nun lu sacciu.”

“Non mi sfiziano i masculi che si nascondono dietro le parole.”

“Sei una figghia pessa!”

“E poi?” apostrofò come una selvaggia.

Idda era femmina dolce a capriccio, e non dava sazio.

“Svegliamo i cristiani …”

“Qui anche se ci abitano, non s’arrisvigghia nuddu.”

“Come fai a dirlo?”

“Non sei sperto per niente.”

Buscemi diresse il fascio di luce sul volto di Concetta.

“Ma unni stemu iennu?”

“Camina, sciamunito!”

La ragazza schizzò via con la rapidità di un felino scattoso.

“Non sei spertu pì nenti, e mancu malandrino!”

Salirono ancora, sempre più in alto.
C’era un silenzio che pareva mancasse l’ossigeno.

Le finestre dei pianerottoli erano spaccate. Da là sopra la città riposava. Non c’era più niente per strada. Non c’era più niente, era tutto vuoto. Una lucina rossa calava dal cielo come un’astronave. Il litorale era illu- minato fino ad Augusta. Concetta tirò fuori una sigaret- ta, la portò alle labbra, l’accese. Lui le scippò via il pas- samontagna: i capelli neri scivolarono lungo le spalle, ondulati, pareva una medusa femminina.

“Così non sembri più un maschiaccio” disse Santo e gli brillarono gli occhi. “Posso fare sempre il malandrino…” aggiunse. Le strinse le guance con la forza delle dita. Strinse forte, quasi quasi faceva male. Lei non si divincolò, gli pestò i piedi invece. Lui non si mosse d’un punto, manco ahi disse, eppure aggiunse: “Mi sfiziano le femmine a cui piacciono le tumpuliate! Chi ti ha imparato?” e le puntò la luce contro le pupille. Aveva labbra carnose, un po’ screpolate. Buscemi le strappò il sentimento con la guardata a tenaglia che s’infilò dentro l’esofago e strinse il cuore, forte forte, per scippare l’ingegno, squagliarla nell’acido, mangiarsela sana sana. Poi la lasciò fuggire, che fu come fosse rimasta in apnea sott’acqua per un tempo pazzesco. Corse su la femmina, acchianando i gradini a due a due, divorandoseli da forsennata, e manco vero pareva che avesse perso fiato e lingua. Aveva le ali, s’alzava in cielo, e l’aria era rarefatta e il battito del cuore un cavallo selvaggio che galoppa per la prateria.

“Unni scappi! Vieni ccà!” gridava Santo che s’arrampicava per le scale all’inseguimento. Sentiva il fuoco scorrere nelle vene, era già sua, senza scampo. La voce rimbalzava di pianerottolo in pianerottolo. Volevano qualcosa che era sempre la solita storia, fuggivano per ritrovarsi, scappavano per essere prigionieri, e quel fatto, da quando il mondo è mondo, è paglia e fuoco nel caldo dell’agosto furente.

Giunsero all’ultimo piano, s’abbracciarono come s’attacca il ferro alla calamita. L’aria umida corrodeva le ossa e sapeva di vuoto e di vento. Ma lei arrossì e rin- cantucciò il capo al suo petto.