Carne di cavallo

 

Camminarono a piedi sul basalto lavico che bucava le scarpe da ginnastica. Filippo col borsone a tracolla e Santo che faceva luce davanti. Erano divenuti equilibristi, spertazzi etnei.

Il fascio di luce attirava lepidotteri e scarafaggi volanti.

“Se ci chiedono perché non siamo andati alla corsa, che diciamo?”

“Siamo stati al tondicello della playa a futtiri, ci arrispunnèmu.”

E Santo fece silenzio, pensava a sua madre. Pensava che era stata una cazzata da principianti quella di abbandonare la macchina per strada e lasciare tracce del loro passaggio. Poi alzò il capo. Si fermò. Scorse l’Etna, il cocuzzolo. Una bava di sangue colava dalla bocca sotto il sereno delle stelle. L’Etna è una montagna calda. A valle la città era un brillare di luci. Era stata una cosa di lusso, laggiù. Con la ricchezza che si custodiva dentro, la roba bianca nascosta dentro uno zaino da extracomunitario negro. Avevano approfittato della corsa ippica in città, una stravaganza creativa, una vanteria di cui essere orgogliosi agli occhi dei cittadini tutti devoti tutti. Lo zio Carmelo si passava il vezzo camorristico dell’equino. Quella notte aveva bloccato la via Etnea; i picciotti se ne stavano con gli scuter di traverso all’imbocco delle stradine, ad ogni incrocio che sbucava sulla via maggiore; che non poteva attraversare più nessuno e parevano tutti sbirri al posto di blocco. In città c’era l’odore dell’arrustemangia che si spandeva come foschia: il barbecù bisunto, ciàuro di cavallo ammazzato. Uno sfizio. Alle due di notte. Centro città. Minchia! Lo zio Carmelo durante la gara aveva montato un Kawasaky e lanciava vuciazzi per incitare al trotto. Tutta la gente per strada che non ne sapeva niente guardava allibita i cavalli correre, e manco sapeva più parlare. Nel mentre c’era la macchina di lusso incustodita dentro il garage, con l’odore di sterco equino e di paglia dentro la marmitta. E c’era nascosta il premio in sostanza chimica fosforescente per il cavallino primo arrivato. Santo e Filippo avevano così sminchiato la saracinesca del garage e tra il feto di stalla avevano fottuto la beddamàchina con tutto il valore. Un’opera dell’Opera dei pupi, tutti allicchettati, impomatati, arrisvigghiàti, mentre quei due, rubavano l’auto per conto di Santalucia, perché avevano da dimostrare che i coglioni per lavorare con lui ce l’avevano anche loro.

Filippo ci pensava a tutto questo, e Santo sentiva freddo, cominciava a scantarsi, che li avrebbero fatti a fettuzze, tutt’e due, appesi al chiodo del chianchiere di fiducia.

C’era Scibilia ad attenderli alle porte di Nicolosi. Si stava facendo l’alba. Il mare argento cupo simile a scaglie di pesce bestino. Buscemi aveva la vescica gonfia e si lamentava.

“Muto statti, cazzone!” gli gridava Filippo. Scibilia guidava, era pagato per fare questo. Il cielo sbiancava, ma la campagna era ancora

un nero di seppia. Santo supplicò Filippo di farlo scendere. Questi fece segno a Scibilia. L’auto accostò al margine della carreggiata. Santo scese. Cercò un luogo per urinare. Poco più in là, contro il tronco di un castagno. Si mise in posizione con un braccio poggiato all’albero. Aspettò, ma ebbe un presentimento.

La sciara s’accese come d’improvvisi bagliori, cerulea a tratti. Filippo scese dall’auto. Santo si alzò i calzoni bagnandosi le mutande, indicò un punto. Laggiù campagna si colorava di ghiaccio, s’accendeva intermittente, paziente. Chi avrebbe mai immaginato che con tutta la delinquenza che c’era in giro a quell’ora del mattino, la Police se ne andasse sciara sciara a cercare una Porsche Cayenne nero basalto metallizzato TipTronic s 4.5?

Dopo un po’ di tempo Santo si piantò all’ingresso di un’agenzia ippica. Ascoltava quello che si diceva in giro, guardava il viavai della gente, scommetteva qualche soldo. Tirava fuori tabacco e cartina, si faceva la sigaretta e se la fumava. Ma non gli piaceva giocare in quella maniera che sembrava una minchioneria. Pensò che sarebbe stato meglio cercarseli sul territorio i cavalli. In periferia, quando tutti dormono e le strade sono vuote, ci sono i cavalli che fanno le corse. L’informazione era un sentito dire, gliela con-

fermò un tale Salomone amico di famiglia e marinaio di lungo corso.

“Vuoi buscarti un po’ di sghei?” gli spiò Salomone. “Ti piacciono i cavadduzzi?” aggiunse serrando gli occhi fitti fitti come due feritoie, “lunedì alle due di mattina fatti trovare qui.”

Salomone poi si sbottonò la camicia.

“La vedi questa ferita?” disse. “Me la sono fatta quando lavoravo insieme a tuo padre.”

Stirò con l’indice e il pollice il grasso della pancia e gliela fece vedere bene la cicatrice, che era un segno raggrinzito e scuro. Buscemi ricordò quello che era successo quando era ancora piccolo. La madre ne ebbe notizia per telefono dalla voce di Santalucia in persona. Quasi non ci credeva che avevano fatto fuori al marito. Fu intervistata, c’era la televisione, si fece riprendere col volto ammucciato, in casa entrarono nuovi amici da baciare su entrambe le guance. Aveva tentato di intrufolarsi nel traffico di Palagonia, ma era andata male. La comarca di Santalucia era stata fatta fuori. Però al piccolo Buscemi quella disgrazia sembrò una fortuna. Era diventato orfano di guerra, che non c’era più bisogno di scantarsi quando camminava strada strada. Un padre ammazzato da una sventagliata di Kalashnikov significa buscarsi rispetto, protezione e stipendio a vita. Perché Santalucia era come la sabbia dell’Etna: quando il vulcano spara fuoco, piove cenere dappertutto e s’infila persino dentro le mutande. Questo signore aveva i piccioli che gli uscivano dalle orecchie, sponsorizzava gli scagnozzi, delinquenteria operaia, si prendeva cura delle spese legali, stipendiava la manovalanza. E siccome Santo Buscemi a un certo punto si fece grande ed era ancora un bravo carusu, Santalucia lo mise alla prova per capire se era cosa sua l’intrillazzatura, almeno così lo stipendio se lo sarebbe buscato al pari di tutti gli altri cristiani. Invece Buscemi insieme a Filippo si fece sgamare dalla Police sciara sciara, e si capì subito che non era cosa sua la vita camorristica. Andò a finire a Piazza Lanza e ci stette tanto quanto sarebbe servito per organizzare un modesto traffico di cocaina da Caracas a Palermo.