Carcere – Galera dentro, galera fuori

testo e foto di Alberto S. Incarbone

È sera e Lucio aspetta davanti a un ristorante. Ha la faccia rasata da stamattina e i capelli corti e fra poco fa tre anni che è fuori dal carcere. Parla lento, si concentra, e quando ascolta si porta l’indice alle labbra ma non stacca gli occhi dall’entrata del locale. Ogni tanto si scioglie e smette di aspettare e racconta di quando è uscito da Augusta “Sei contento, ovvio, finalmente sei libero poi rivedi com’è vivere fuori e ti passa ‘a fantasia”. Niente lavoro, niente assegni di disoccupazione, una casa da affittare con Francesca.
“All’inizio vendevo luppini – dice – e non è come quando hai vent’anni: prendi la bicicletta vai all’ingrosso ritorni. Mi costava fatica e soldi, si nuddu accattava qualche cosa, e col caldo i luppini li puoi buttare. Per fortuna la gente del quartiere mi aiutava. Mi sono rovinato quando ci siamo trasferiti sul lungomare. Lì bene o male scendevo e vedevo il macellaio, il signor Enzo della putia: qua invece non conosco nessuno, che posso fare?”.
Le persone entrano ed escono dal ristorante, ben vestite e abbronzate, e per strada gruppi di ragazzi e ragazze passeggiano andando verso i solarium. Lucio e Francesca hanno preso casa qui perché lui aveva trovato lavoro. Dice che faceva il lavapiatti, tipo venticinque euro al giorno. “È durato qualche mese perché i titolari, i due soci, si sono acchiappati. Niente, non si sono capiti e la pizzeria ha chiuso”.
Lucio fa una smorfia, si vede che parlare di questo non gli piace. Si sistema il borsello dall’altro lato, Francesca sbadiglia seduta sulla sedia. Sono le undici, sono stanchi. Lui si riprende un po’ e continua a raccontare, sempre serio “E non ti ho detto di quando sono andato a lavorare a Catanzaro. Niente, mi chiama quest’amico. ‘Ehi ciao Lucio senti, c’è ‘na iunnata ‘i travagghiu, vuoi venire?’. E gli dico sì, certo. Oh, sedici ore di lavoro nda campagna senza mangiare e bere. Il viaggio c’ha pensato lui, ma al momento di pagare mi dà un pezzo da venti – a Lucio spunta una faccia sdegnata – Ma ti pare normale?! Venti euro li dai a uno che ha sedici anni, a me che ne ho trentacinque ma almeno cinquanta euro! C’haiu a zita, la casa da mantenere. Niente, dopo una settimana mi richiama, sempre per lavorare lì, e gli rispondo ‘Senti Saro, non per essere razzista, ma o ceccati a nniuru’”.
Lui smette di parlare ma gli occhi restano fermi, non c’è nessun commento da fare. In quel momento arriva una ragazza col casco in testa “Ecco, buona serata” e dà un euro a Francesca. È solo un attimo, Lucio ringrazia e poi si fa triste e serio più di prima, abbassa la voce e resta con le braccia incrociate “Ti pare che non mi hanno chiamato certe persone? E iù c’haiu rittu sempre no”. È l’orgoglio a non farlo piangere e gli occhi restano semplicemente lucidi: non può dire che ha paura di tornare in carcere, la cosa si capisce, e per rispetto la discussione finisce lì, con un abbraccio a lui e a Francesca e un ultimo saluto da lontano.